polymetis ha scritto:Dicci di più, Signore di Ftia, caro a Zeus. Si tratta delle storie di fuoriusciti ritenendole attendibili? […]
È un testo di sociologia di 300 e rotte pagine (oltre ai TdG si parla di Damanhur, Sokka Gakkai, Scientology), che ora non ho tempo di leggere, ma dando un’occhiata qua è la riscontro un approccio metodologico corretto. La domanda se «ci si può fidare degli apostati» appare in un sottotitolo dell’
Introduzione, e la risposta, piú che teorica, è fattiva: il nostro Achille è menzionato 60 volte, il nostro sito (
non il forum) 32, quasi sempre a séguito di citazione. In altre parole, chi scrive, la domanda non se la pone piú di tanto, gl’interessa invece l’analisi del fenomeno apostasia direi quasi in stile Weber, ovv.
avalutativo, e nelle connessioni dinamiche e strutturali col movimento religioso d’appartenenza; vd. la conclusione (p. 316 s.):
L’apostasia è un’esperienza liminare che è denotata da questi medesimi requisiti: è performativa ed è antistrutturale. Il percorso in cui prende forma è segmentato da molteplici punti di rottura che minacciano il sodalizio tra i membri della comunità religiosa: rottura delle relazioni sociali, del vincolo morale, del riferimento comune a un sistema di credenze e conoscenze, di sentimenti collettivi che saldano la coesione interna per differenza rispetto al contesto esterno. Gli episodi di rottura, ripetuti nel tempo, portano alla disillusione, al dissidio e alla decisione di lasciare il gruppo di appartenenza. A ben guardare, però, l’apostasia stessa è un episodio di rottura, antistrutturale, che infrange le aspettative della comunità e che viene percepito come minaccia all’unità sociale. L’apostasia è pertanto un margine sia dal punto di vista dell’apostata sia dal punto di vista del gruppo religioso.
In altre parole le finalità dello studio sono «la ricostruzione dell’esperienza dell’apostasia e non già del profilo delle organizzazioni religiose da cui i nostri interlocutori [sc. gli apostati interpellati] hanno preso congedo» (p. 25). La questione dell’affidabilità delle testimonianze è relativa, vengono in breve riassunte da un lato le diverse e anche opposte valutazioni di studiosi precedenti e la necessità di un approccio «epistemico» corretto, realizzato nell’analisi e nell’osservazione della sua duplice ramificazione, eterodossa e ortodossa, ovvero (p. 28):
Credente e apostata, nella rappresentazione dell’organizzazione cui – rispettivamente – sono ed erano legati, muovono da motivazioni e interessi diversi, assumono come modello diversi gruppi di riferimento normativi, costruiscono le proprie rappresentazioni sulla base di contatti con l’esterno diversi per intensità e direzione.
Vale a dire che entrambe le posizioni, sia quelle degli apostati, che quelle dei NMR (cioè
Nuovi Movimenti Religiosi: lo studio tende a non usare il termine sètta) vanno valutate criticamente, tramite il confronto con i «documenti naturalistici» a disposizione (per es., nel caso dei TdG, le posizioni espresse dalle loro pubblicazioni e dai siti ufficiali). Di fatto (
ibid. corsivi miei):
Se le narrazioni di apostasia sono narrazioni critiche, quelle dei convertiti sono narrazioni celebrative. Da ciò discende la tesi ecumenica – ma più che mai urgente in questo contesto – per la quale nel procedere alla ricostruzione del profilo di un’organizzazione religiosa a partire dalla narrazioni di chi è, o ne è stato parte, la medesima cautela richiesta dall’analisi (della cui imprescindibilità si è già detto) delle narrazioni di apostasia è necessaria nell’analisi delle narrazioni di conversione.
Quest’ultimo periodo è non poco contorto, ma in sostanza significa che se le testimonianze degli apostati non vanno prese a scatola chiusa, con la stessa cautela vanno prese quelle di coloro che entrano o fanno parte dei NMR, e ciò con buona pace dei lepidi geovisti, internettiani e non, abituati a prendere qua e là, non contestualizzandole, le testimonianze di sociologi che paiono favorirli, dichiarando la dubbia fede degli apostati, quando poi i sociologi sono altrettanto cauti nel prestar fede alla
loro testimonianza, tant’è che fin dai tempi di Weber e di Troeltsch quella dei TdG è sempre stata esempio tipico di aderenza al modello teorico di quel che si intende per
sètta. Del resto non hanno che da leggersi che cosa pensano di geova i sociologi che scriverebbero, secondo loro, a sfavore degli apostati, dopo di che, se hanno rimasto un barlume di spirito critico, lo adoperino.
Nondimeno lo studio non mi convince del tutto: buono il finale del cap. 5 (p. 223):
L’apostata non è allora soltanto testimone di una vicenda biografica di negazione e allontanamento da una fede ma anche, talvolta, portatore di una nuova e personale religiosità o visione etica che rielabora, in primo luogo, nel confronto e nel dialogo con altri fuoriusciti. È un atteggiamento religioso polemico che si modella ed emerge in controluce nel corso degli anni di permanenza all’interno del gruppo e può fornire all’apostata il più importante supporto per orientarsi nella fase di transizione verso nuove scelte di vita, sia religiose che laiche.
Ma con ciò si riduce l’apostata a un tipo sociologico, e se ne trascurano le effettive competenze “critiche” e intellettuali, non mirate solo a un fine polemico (per altro indubitabile) di conoscenza, astratta dalla situazione esistenziale: l’autore del capitolo (Nicola Pannofino) sembra a volte non rendersi conto che la Bibbia (dell’apostata), citata contro la Bibbia (dei TdG) ha spesso funzione meramente
strumentale, a far comprendere le contraddizioni interne della WTS, e non a illustrare il punto della ricerca soggettiva cui l’ex è pervenuto, che troppo in fretta cataloga come «reinterpretazione personale della Bibbia» (p. 197), quasi assimilando l’apostata a un “protestante”, o catalogandola come personale cammino religioso, invece che intellettualmente feconda e portatrice di conoscenza, tutt’altro che una propria posizione personale:
La Bibbia sembra essere una risorsa culturale ambivalente, rappresentando uno standard normativo che non è messo in discussione né dai membri né dai fuoriusciti e a cui entrambi attingono. (p. 196)
Questo, su cui Pannofino insiste troppo spesso, è semplicemente falso, in quanto sappiamo che volentieri l’apostata, a quella Bibbia non crede affatto, e se stigmatizza la lettura letterale dei TdG non lo fa per proporre una lettura alternativa, ma per sottolineare l’assurdità di quella lettura primitiva, e che lo sbocco di questa sua visione non è affatto una nuova religione, ma in certi casi anche l’agnosticismo, l’ateismo, o l’indifferenza. E ciò è importante, anche se si rimane credenti, perché non lo si rimane tanto per una lettura alternativa, ma per una visione laica e non ideologica del fenomeno NMR, vale a dire che l’errata lettura della
sola Scriptura geovista non è attaccata in nome di una lettura superiore, ma, sic et simpliciter, in nome della sua puerile banalità, a prescindere che possano esistere letture piú o meno intelligenti. È un punto che Pannofino non sembra aver ben compreso, riducendo, di fatto, l’apostata a un tipo quasi interscambiabile, e inquadrabile in un discorso tipo-sociologico, quando questo è valido solo in certi casi, cui lo stesso Achille, a mio parere, non appartiene, e da lui troppo di frequente inquadrato in leggi generali, quando so bene, conoscendo l’amico di persona, che solo in parte Achille può adattarsi a questi schemi.
Nondimeno lo studio è ben scritto, anche se un po’ astratto: e lo consiglio vivamente agli apostati che vogliano interrogarsi su di sé, con spirito di autocritica.