[Florilegio]: l'immortalità dell'anima in James Barr

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[Florilegio]: l'immortalità dell'anima in James Barr

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Mi sono stati chiesti via e-mail dei suggerimenti bibliografici sul rapporto tra immortalità dell’anima ed ebraismo, col risultato che la mia mente è corsa subito ad un volume di James Barr che avevo già segnalato in questo forum, intitolato “Il giardino del’Eden e la speranza dell’immortalità” (Brescia, Morcelliana, 2008). Si tratta della versione ampliata delle lezioni che l’autore tenne all’università di Bristol nel maggio 1990, con un tema che verteva sull’immortalità nella Bibbia a partire dal giardino dell’Eden.
Credo che valga la pena di spendere due parole visto che quest’autore fu regius professor di ebraico ad Oxford ed è unanimemente riconosciuto come il maggior esperto di semantica biblica della seconda metà del ‘900. Ovviamente la mia esposizione del suo pensiero sarà semplicistica perché non essendo io degno neanche di sciogliere i legacci dei calzari di James Barr non ardisco a pretendere che il mio piccolo riassunto potrà riprodurre la forza delle sue argomentazioni.

In primo luogo l’autore prende di petto quella che lui chiama la “concezione della totalità” ebraica, cioè l’ipotesi esegetica che nefesh designi l’unità psico-somatica dell’individuo come un tutt’uno, cioè la linea di pensiero cullmanniana. A questo proposito ribadisce invece che nefesh ha un arcobaleno di significati, non riconducibili alla sola unità psicofisica del’individuo, e che anzi è pregiudiziale ed una forzatura dei testi pretendere questo. Dopo aver scandagliato vari testi dell’antico testamento l’autore sostiene che è solo per un pregiudizio anti-duale che molti autori si sono sforzati di far evaporare ogni riferimento alla sopravvivenza di un’anima distinta dal corpo dall’Antico Testamento, e che in realtà tutta una serie di testi in cui si parla di entità che escono alla morte dal corpo dell’individuo vengono da questa corrente immancabilmente interpretati in maniera non personale, rendendo con “la vita esce dal corpo” “il respiro esce dal corpo” o costrutti similari. Barr argomenta che in realtà non c’è nessun motivo, se non l’ingiustificato pregiudizio di partenza che l’antropologia veterotestamentaria sia monista, per compiere un’operazione del genere, ed argomenta che tutti questi passi potrebbero altrettanto essere attestazioni dei primordi di una fede nell’immortalità di un quid personale che noi oggi chiamiamo anima. La sua argomentazione cioè è che l’analisi che facciamo dei testi dipende unicamente dai presupposti di partenza, e che una volta che si sia mostrata l’aleatorietà della tesi secondo cui l’antropologia ebraica sia anti-duale non ci sia in realtà alcun motivo per forzare tutti i testi dell’antico testamento in una direzione contraria all’immortalità personale dell’anima. Riconosce però che, stando al solo canone ebraico delle Scritture, entrambe le tesi, quella immortalista e quella anti-immortalista, si equivalgono per probabilità, perché tutto dipende da un’ingiustificata decisione iniziale che ciascuno dei due schieramenti fa sul paradigma antropologico previo in cui incasellare i testi. Suggerisce inoltre che la visione antico-testamentaria sia simile a quella di altri popoli del mediterraneo antico, Omero compreso, cioè esista una sopravvivenza delle anima in uno stato umbratile e depauperato, all’interno di un luogo squallido che Omero chiama Ade mentre gli antichi Ebrei sheol. Questa condizione, dove il defunto è un’ombra ma non è affatto nientificato, sarà il trampolino per il successivo sviluppo in senso più immortalista, come del resto avvenne anche in Grecia dove Omero fornì il punto di partenza per i successivi sviluppi filosofici. A questo punto Barr denuncia che l’ostilità verso l’immortalità dell’anima deriva da un’ingiustificata ostilità verso tutto ciò che è greco, e dall’insensata idea che la cultura ebraica fosse un’isola estranea ad influssi. Ed è così che ribadisce l’assenza di una dicotomia tra pensiero greco e pensiero ebraico, affermando anzi che nei libri più recenti dell’antico testamento ci sarebbe senz’altro un’influenza del pensiero greco dell’anima. In seguito Barr prende nuovamente di petto la tesi di Oscar Cullmann e, appoggiandosi agli studi di G.W. Nickelsburg afferma che il teologo tedesco ha tratto conclusioni sull’antropologia ebraica del nuovo testamento del tutto infondate, perché ha omesso di trattare le fonti del giudaismo intratestamentario dove l’immortalità dell’anima non era concepita come alternativa alla resurrezione ma veniva ad esse tranquillamente affiancata come complementare. Sicché la critica ad un presunto bisogno di “semitizzare” il senso di psychè quando lo leggiamo nel Nuovo Testamento è duplice: non solo infatti questi tentativi ignorano l’evoluzione che aveva avuto il giudaismo negli ultimi 3 secoli, ma per di più, se anche essi volessero agganciarsi all’antico testamento, lo farebbero in modo aleatorio ed ingiustificato perché Barr aveva già precedentemente contestato che persino l’Antico Testamento fosse monista. In conclusione c’è un capovolgimento totale del quadro cullmanniano: non sono necessari i cervellotici tentativi per interpretare in maniera anti-immortalistica passi come Mt 10,28 dove si parla di uccidere il corpo ma non l’anima. Secondo Barr è possibilissimo che l’interpretazione più immediata, che darebbe un occidentale del XXI secolo incolto, sia la più corretta. I tentativi di lettura anti-immortalistica si basano infatti sull’assunto, del tutto gratuito, che la cultura ebraica vetero-testamentaria ed intratestamentaria sia monista, e che dunque tali versetti neotestamentari sarebbero da interpretare sulla base di siffatto Sitz im Leben monista. Ma una volta che sia stata denunciata l’aleatorità di questi presupposti, non v’è più nessuna necessità di piegare i testi, che suonano così duali, ad un postulato paradigma monista che sarebbe solo un artificio esegetico. Se infatti neghiamo l’assunto, dato qui per scontato, che l’antico testamento sia monista, diventa una petitio principii dire che anche i versetti del Nuovo Testamento vadano interpretati così per accordarsi all’Antico Testamento, infatti ciò che non si concede è che siffatta tesi sull’antropologia dell’Antico Testamento sia corretta, o sia l’unica possibile. Barr insiste molto sul fatto che tutti i versetti in realtà potrebbero avere una doppia lettura, e dunque non c’è nessun punto di partenza fermo per preferire un paradigma monista ad uno duale, e ciò si riflette a cascata sulla comprensione del Nuovo Testamento come “testo ebraico”. Glossa poi dicendo che, se anche ammettessimo che l’Antico Testamento sia monista, non si vede in alcun modo perché si dovrebbe valutare il Nuovo Testamento sulla base dell’Antico e non invece sulla base del giudaismo coevo, dove l’immortalità dell’anima era ben presente. Barr mostra che se Paolo ha tratto idee come il peccato originale dalla letteratura intra-testamentaria enochica (ed infatti gli Ebrei odierni non vedono nella Genesi alcunché di quello che ci vedono i cristiani), allora non si vede perché dovrebbe essere una cosa diversa per quanto concerne l’immortalità dell’anima. Barr ricorda la preziosa testimonianza di Flavio secondo cui sia esseni che farisei credevano all’immortalità dell’anima e alla sua sopravvivenza alla morte del corpo, altro brano del tutto trasparente e che non c’è bisogno di interpretare in maniera cervellotica per farlo quadrare con un presunto paradigma monista che non ha nessuna ragione d’essere a quest’epoca. Ho letto che s’è tentato di minimizzare l’importanza del gruppo dei farisei nel giudaismo del II tempio, ma ciò non consta alle fonti. Come scrive Flavio essi erano "la setta di maggioranza" (Guerra Giudaica, II, 162), e quanto alla loro presa sul popolo ci riferisce che "tanta potenza hanno sulla folla, che pure se dicano alcunché contro il re o contro il sommo sacerdote sono immediatamente creduti" (Antichità Giudaiche, XIII, 288). Sicché la loro presa di posizione sull’immortalità dell’anima non è un fenomeno di nicchia ma trasversale alla maggioranza dalla gente, il che rende ancora più assurdo il tentativo di demitizzare i passi del NT dove si parla di anima, presupponendo che questo modo di pensare fosse “ellenistico” ed estraneo all’ebraismo. Si tratta di una posizione che non tiene conto delle fonti del giudaismo medio. Si potranno dunque respingere al mittente come gratuiti, e privi di necessità, tutti i tentativi di leggere in maniera anti-immortalistica passi come Ap 6, 9-11. Caduta infatti la presunzione di partenza che la cultura ebraica sia monista, nulla vieta di interpretare questi passi in maniera immortalistica, e proprio sulla base della cultura ebraica circonvicina. Non spetta dunque a chi sostenga l’immortalità dell’anima il compito di portar prove sulla necessità di interpretare questi passi in maniera immortalistica, semmai al contrario dovranno essere coloro che negano quest’opzione a spiegare perché la loro lettura sarebbe più probabile, visto che il contesto giudaico coevo era pesantemente favorevole all’immortalità dell’anima. La posizione immortalistica deve cioè essere vera fino a prova contraria, mentre sinora in questa discussione c’è stato l’andazzo di dare per scontato un presunto paradigma ebraico monista e chiedere delle prove sufficienti per documentare un distacco da tale paradigma nel NT.
Mi sia ora concesso fare una piccola antologia dal II capitolo del libro di Barr per documentare il percorso appena esposto. Per brevità ometto di riportare le note, non perché siano poco importanti, ed anzi, danno la documentazione di quello che l’autore afferma, ma mi darebbero problemi di impaginazione qualora dovessi riportarle in questo forum, quindi chi le voglia leggere dovrà prendersi il libro.
In primis riporto la presa di posizione di James Barr sull’insufficienza della posizione di Cullmann nel definire cosa sia un paradigma “ebraico”:
“In secondo luogo, infatti, come è stato ampiamente mostrato da diversi autori, quando si fa una attenta ricerca sulle idee giudaiche della vita dopo la morte, dal periodo di Daniele e fino agli inizi del cristianesimo, la documentazione mostra che esisteva una vasta varietà di opinioni: risurrezione del corpo, immortalità dell’anima, una “vita eterna” contrassegnata dalla qualità che appartiene alla vita presente, ed altre. Ognuna di queste poteva essere condizionata e soggetta a variazioni e combinazioni. La risurrezione poteva essere per pochi; e solo per i giusti, non essendo concessa una cosa uguale ai malfattori. L’immortalità poteva essere una caratteristica dell’umanità dall’inizio, ma anche qualcosa che doveva essere guadagnato con una condotta corretta. Inoltre poteva essere limitata ad un gruppo particolare. La “vita eterna” nel senso d’una qualità entro questa vita poteva portare ad una vita dopo la morte o alla risurrezione, o poteva semplicemente ignorare la questione della morte. Precisamente se si scende fino agli inizi del cristianesimo non ci fu, sembra, un punto di vista stabilito e ben determinato circa questi argomenti. I discepoli stessi di Gesù sembrano non aver aspettato la risurrezione del loro Maestro finché non avvenne. In particolare, come mostrerò, idee sull’immortalità dell’anima erano forti nel tardo giudaismo. Anche dov’era pienamente riconosciuto «il legame, stabilito dal giudaismo, fra la morte e il peccato» (Cullmann), non ci fu l’idea che questo implicasse necessariamente la scelta della risurrezione del corpo ed escludesse quella per l’immortalità dell'ani-ma. Il fatto che Cullmann, dentro quest’argomento, eviti il materiale intertestamentario - che, naturalmente, deve aver conosciuto molto bene - lo espone ad una critica distruttiva:

Escludendo qualsiasi discussione di testi ebraici specifici, Cullmann si è accostato al Nuovo Testamento presupponendo una concezione ebraica unitaria che è una pura invenzione.” (G. W. Nickelsburg, Resurrection, Immortality, and Eternal Life in Intertestamental Judaism, in “Harvard T 26, Cambridge, Mass. 1972, p.180)

Nonostante il suo distinguersi come studioso del Nuovo Testamento, in questo caso e riguardo ai riferimenti ebraici e giudaici egli sembra aver semplicemente accettato la validità delle tradizioni dogmatiche più antiche, ignorando la documentazione dei testi.
In terzo luogo, come il primo capitolo ha chiarito, Cullmann è stato ingenuo nel dire che la Genesi «ci insegna» tutto questo; e non solo la Genesi : «Paolo dice la stessa cosa». È puramente perché Cullmann prende l’uso che Paolo fa della Genesi come normativo che pensa tutto questo sia «insegnato» dalla Genesi. Come ho mostrato, il modo stesso di Paolo di trattare il tema di Adamo ed Èva si adatta scarsamente alla Genesi e può essere giustificato solo se ci si muove sul terreno, non della Genesi in sé, ma del modo con cui era interpretata anzitutto in epoca ellenistica. Così, esattamente all’opposto della interpretazione anti-ellenistica di Cullmann, può essere che gli influssi provenienti dal mondo greco abbiano svolto un ruolo positivo nella formazione della stessa concezione paolina, che egli tanto stima. Ma prima di trattare delle interpretazioni successive, dovremmo ritornare a un aspetto più fondamentale. Anche a prescindere dalla Genesi, è vero per l’Antico Testamento in generale che la morte è qualcosa di «innaturale, anormale, contrario a Dio?» C’era veramente, ai tempi biblici, un «legame, stabilito dal giudaismo, tra la morte e il peccato» “presupposto” da Paolo? In effetti ci sono molte forti ragioni contro questa comprensione della questione.”(pp. 35-36)


Barr fa poi una disamina sull’antico testamento per concludere che l’idea che la morte sia nemica dell’uomo e qualcosa da combattere non appartiene all’antico testamento ma dipende dal Nuovo Testamento. Salto questa parte che non ci interessa e passo a dove Barr fa una trattazione del cosiddetto pensiero della totalità, cioè l’idea che nefesh indichi l’unità psico-fisica dell’individuo. La trattazione occupa l’intero capitolo, io mi limito a riportarne l’esordio:
Ugualmente importante, negli studi recenti su tali questioni, è stata la presentazione del “pensiero della totalità” degli antichi ebrei:

«Nella riflessione israelitica l’uomo è concepito non tanto in maniera duale come “corpo” e “anima”, ma in modo sintetico come un’unità di forza vitale o (nella terminologia corrente) come un organismo psico-fisico» (A. R. Johnson, The vitality of the individual in the thought of ancient Israel, University of Wales Press, Cardif, 1964, p. 84)

Senza dubbio questi pensieri hanno esercitato una forte influenza sulle idee circa la natura della vita e il carattere della morte nell’Israele biblico. Knibb cita Westermann che dice:

«un essere umano non è costituito da parti diverse (come corpo, anima e così via) ma piuttosto è “qualcosa” che viene ad esistere come individuo umano tramite un risveglio alla vita[...] Una persona è creata come nefesh hayyah; non si mette nel suo corpo un’“anima vivente”». (Knibb M.A., Life and Death in the Old Testament, in Clements (ed.), The Word of Ancient Israel, Cambridge University Press, 1989, p. 398)

O, per usare un’altra formulazione più conosciuta, l’uomo «non ha» un’anima, egli è un’anima vivente. Queste idee sono state indiscutibilmente molto influenti nel nostro tempo.
Centrale in esse è stato il termine nefesh, spesso tradotto con “anima” nelle versioni bibliche più antiche. Gli autori comunemente danno uno spazio importante alla creazione di Adamo (Gn 2,7). Quando il primo uomo fu creato, Dio lo plasmò con la polvere o il fango e «soffiò nelle sue narici l’alito di vita; e l’uomo divenne una nefesh vivente». Da questo ed altri esempi simili è tratta la conclusione che nefesh significa un’unità totale, indivisibile della persona, corpo, anima e qualsiasi altra cosa. Il termine, ci si ricordi, potrebbe significare una parte del corpo, come la gola; in Nm 6,6 potrebbe riferirsi anche a un cadavere (‘l-nps mt l’yb’ :chi fa voto di nazireato non potrà avvicinarsi alla nefesh di un morto); essa potrebbe anche aver sete ed esser disperata. Si dice che il concetto sia rappresentativo del pensiero ebraico per totalità, molto diverso dallo studio analitico dei greci e dei tempi presenti. Devo confessare di essermi detto a volte cose come queste: ma quando si guarda nuovamente ai testi, è proprio vero?
Ci sono tante ragioni contro.
Si può davvero credere che gli antichi ebrei, allo stadio più remoto della loro tradizione, già avessero un’idea dell’umanità che si accorda così bene con la recente considerazione per l’unità psicosomatica? Come riuscirono a far quadrare tutto così perfettamente bene quando i greci, evidentemente, fraintesero tutto in modo così radicale?
In molti moderni trattati non c’è un evidente pregiudizio, che sembra voler a tutti i costi smentire che gli ebrei avessero l’idea di un’“anima” indipendente, e peggio ancora, che la ritenessero immortale? Non potrebbe essere un’analisi semantica sbagliata, ispirata dall’ammirazione per il vero e proprio “pensiero della totalità” che si pensa essa dimostri?” (pp. 51-52)
Il seguito di tutto il capitolo è la trattazione che il nostro regius professor oxoniense fa per argomentare l’incipit dubitativo. Ora per ragioni di spazio è impossibile ovviamente mettersi a riportare tutte le analisi semantiche di Barr, il mio vuole piuttosto essere un invito alle persone interessate al tema a leggersi il capitolo due del libro, dove tutto è svolto. L’autore in queste pagine mostra come sia pregiudiziale scartare a priori significati sulla base di un presunto paradigma monista, e che in realtà la lettura di tutti i testi dipende da un previo, ed ingiustificato, assunto iniziale, visto chele occorrenze testuali si prestano a molteplici interpretazioni. Ciò non vuol dire che Barr escluda che nefesh possa riferirsi anche alla totalità dell’individuo, a volte infatti è addirittura il sostituivo del pronome persone, come in Ez 18, la cui traduzione “chi pecca morirà” è del tutto letterale, perché quel “chi” è la resa di nefesh nel suo significare l’individuo, e tutti i dizionari riportano questa sua funzione sintattica di sostituzione ai pronomi. Non c’è dunque alcuna “espunzione” in traduzioni come la Cei.
Noi stiamo facendo solo una ricognizione a volo d’uccello del libro, e dunque saltiamo alla parte dove Barr inizia ad analizzare il giudaismo dell’epoca di Cristo, stigmatizzando i tentativi cervellotici di riportare i logia di Gesù ad un’inesistente paradigma ebraico monista, facendo questi rilievi:
“ Giuseppe Flavio, descrivendo i Farisei, dice abbastanza chiaramente che affermano che

«ogni anima è âphtharton, immortale o imperitura, ma l’anima dei buoni passa in un altro corpo, mentre le anime dei malvagi subiscono una pena eterna» (G. Flavio, De Bello Judaico, 2.154,163).

Degli Esseni dice che credono che «i corpi sono corruttibili [...] ma le anime immortali vivono in eterno» (phthartà mèn éinai tà somata ... tàs dé psychas athanatous aèi diaménein). E' impossibile ignorare la documentazione di queste distinzioni negli scritti ebraici successivi e in quelli cristiani primitivi. Di che cosa parlava Gesù quando disse alla gente di non temere chi uccide il corpo, ma di temere chi potrebbe far perire sia il corpo che l’anima nella Geenna (Mt I0,28)? [Barr discute in nota della cervellotica teoria di Cullmann per spiegare questo versetto, ripresa anche in Italia da Ravasi, ne consiglio la lettura a chi fosse interessato ad approfondire N.d.R.]

Gli uomini potevano uccidere il corpo ma non l’anima; solo forze soprannaturali potevano nuocere o uccidere quest’ultima. Le sue parole sono in completa continuità con gli scritti della crisi maccabaica del martirio, della quale parlerò tra un momento.
Autori convinti della rappresentazione della “totalità” nella nefesh ebraica hanno spesso, logicamente, continuato con l’affermazione che la traduzione della parola mediante il greco psyche ha distorto il significato. Westermann giustamente rileva la controargomentazione di J. Bratsiotis, nel senso che questa opinione non si regge se si considera ‘ anche l’utilizzo greco pre-platonico.
Il pensiero ebraico perciò non è esso stesso un blocco monolitico. Anche se è stato correttamente descritto per il periodo biblico precedente, qualsiasi rappresentazione basata su questo periodo richiede d’essere modificata molto per le epoche successive. Ed il versante greco del paragone ha ugualmente bisogno di precisazioni. I teologi che hanno usato il contrasto tra il pensiero biblico e quello greco hanno comunemente accettato una descrizione del pensiero greco basata sulla tradizione filosofica platonica; ma è facile vedere che la rappresentazione greca della vita e della morte in tempi più antichi potrebbe avere molto più in comune con quella dei tempi biblici primitivi. L’ostilità verso il pensiero greco ha probabilmente fatto sì che fossero trascurate importanti testimonianze, nelle quali lo sviluppo greco primitivo poteva dare suggerimenti per interpretare le realtà ebraiche. Similmente, ma al contrario, anche se il pensiero di antichi testi ebraici differisce ampiamente da quello della filosofia greca, è probabile che alcuni dei testi ebraici più recenti e post-biblici abbiano molto più in comune con quest’ultima. Il riconosciuto contrasto tra la concezione della filosofia platonica e il concetto ebraico della totalità potrebbe esser costruito, da ambo le parti, su periodi e settori molti ristretti, scelti arbitrariamente e indagati in modo inadeguato. .
Si potrebbe spendere un momento per rammentare al lettore che nel giudaismo tardo (talmudico e post-talmudico) v’era una combinazione piuttosto vaga e fluida tra risurrezione del corpo e immortalità dell’anima: per fare qualche esempio cito dall’articolo «Vita dopo la morte» nell’ Encyclopedia Judaica:

«Quando un uomo muore la sua anima lascia il suo corpo, ma per i primi dodici mesi mantiene con esso una relazione temporanea, venendo e andando finché il corpo si è disintegrato. Così il profeta Samuele poté esser risuscitato dal morti entro il primo anno dal suo decesso. Questo anno resta un periodo di purificazione per l’anima, o secondo un’altra opinione solo per l’anima del malvagio, dopo il quale i giusti vanno in paradiso e i malvagi all’inferno. L’effettiva condizione dell’anima dopo la morte non è chiara. Alcune descrizioni sembrano dire che è quiescente, le anime dei giusti sono celate “sotto il Trono di Gloria” (Shabbath 152b), mentre altre sembrano attribuire ai morti piena coscienza (Esodo Rabbà 52,3 ecc.). Il Midrash dice anche: “l’unica dif-ferenza tra i vivi e i morti è la facoltà di parlare.” C’è anche un’intera serie di dispute circa quanto conoscono i morti del mondo che hanno lasciato (Berakot 18b).
In Maimonide [...] l’immortalità dell’anima è dominante. Sebbene faccia della credenza nella risurrezione, piuttosto che nell’immortalità di un’anima incorporea, uno dei suoi princìpi basilari di fede ebraica [...] è solo quest’ultima che ha senso nei termini della suo sistema filosofico. Certamente, la risurrezione non figura affatto nella Guida dei perplessi». (Lemma” afterlife”, in Encyclopedia Judaica 2, coll. 337-338, pp- 336 ss.)

Prendiamo ancora il caso di Spinoza. Una delle ragioni che si sono proposte per la sua scomunica, il 27 luglio del 1656 ad Amsterdam, fu che pensava che «l’anima morisse con il corpo», un’opinione scandalosa che equivaleva a una forma di vero e proprio ateismo. Commentando questo, un articolo recente osserva che:

«La principale funzione teologica della fede nell’immortalità dell’anima è stabilire il fondamento della ricompensa e della punizione non in questo mondo». (A. Kasher e S. Biderman)

Se questo fu un elemento nella scomunica dell’illustre Spinoza, è chiaro che l’immortalità dell’anima era un argomento importante nella vita ebraica.
Bene, il lettore potrebbe dire: può essere così, ma naturalmente è solo perché queste tradizioni ebraiche avevano importato i concetti della filosofia greca. Sì, forse. Ma proprio questo è il punto. Non solo si è fatto uso di una sommaria e discutibile opposizione tra pensiero ebraico e greco, ma si è inteso che il pensiero ebraico, identificato in questo modo, è perfetto ed esaustivo. Nel modo in cui è descritto da molti autori, esso non fa problemi, non lascia dilemmi insolubili; non contiene contraddizioni e risponde a tutte le questioni. Stando così le cose, ne conseguiva che, se qualcuno era attratto da elementi del pensiero greco, la ragione sta nel fatto che erano degli stolti o dei bricconi. Poiché avevano un modo perfettamente adeguato di pensare, essi erano disposti a rovinarlo introducendo erronee e inadeguate idee tratte da Platone o da altri, idee che potevano solo demolire la totalità assolutamente soddisfacente che già esisteva.
Tutto questo è stato un’illusione. Anche se il “pensiero della totalità” ebraico è stato descritto correttamente, cosa di cui si può ragionevolmente dubitare, esso lasciava lacune, antinomie e contraddizioni, la cui documentazione può esser vista negli stadi successivi dell’interpretazione. Questi stadi posteriori si affaccendarono a cambiare il loro fondamento per ovviare ad alcune delle difficoltà conseguenti. Se le fonti ebraiche post-bibliche sono interessate alle idee greche e le tro-vano creative, è perché hanno avuto problemi nella loro stessa tradizione religiosa, che hanno reputato per lo meno in parte attenuati attraverso il dialogo con queste idee e, dove era desiderabile, attraverso un’adozione parziale di esse. Molto spesso, se gli ebrei adottarono dei concetti greci, dev’essere accaduto perché pensarono che essi esprimessero molto bene i concetti della loro propria religione ancestrale.” (pp. 61-64)
In seguito James Barr riprende la sua polemica contro coloro che trattano il Nuovo Testamento come una meteora caduta dal cielo e che si sono fatti sviare da una ricostruzione forzosa viziata da presupposti fondamentalistici, cioè dall’idea che la rivelazione ebraica sia stata aliena dal contesto delle credenze del mediterraneo:
“Con una memorabile frase già citata, Stendahl scrisse: «L’intero mondo che arriva a noi attraverso la Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, non è interessato all’immortalità dell’anima». Ora questo potrebbe forse essere provato se si limitasse il proprio orizzonte solamente ai testi canonici e non si dicesse assolutamente nulla del “mondo” dal quale derivano. Ma questo è semplicemente impossibile. Il mondo del tardo giudaismo dal quale proviene il Nuovo Testamento è acceso dall’interesse per la speculazione sulle diverse opzioni, e l’immortalità dell’anima è una dei candidati favoriti. Come poté Stendahl, dicendo così, apprezzare il libro di Nickelsburg, dato che lo stesso libro contiene molte testimonianze di questa varietà, incluse ampie attestazioni della credenza nell’immortalità dell’anima? La debolezza della sua posizione è evidente quando si riferisce allo studioso biblico come ad uno che «si specializza in sessantasei cosiddetti libri che non conoscono l’immortalità dell’anima». Anche se questo fosse vero, è un’argomentazione valida solo se si prende il più ristretto canone protestante. Nel momento in cui si considera il canone più ampio, com-prendendo la Sapienza e i Maccabei, la tesi cade.” (p. 71)
La conclusione del capitolo di Barr è quanto di più equilibrato si possa scrivere:
“Quello che penso d’aver mostrato è che, per gran parte della Bibbia ebraica, la morte, purché fosse a tempo debito e in buone circostanze, era naturale e giusta agli occhi di Dio; che l’Antico Testamento testimonia pensieri e aspetti dai quali poteva facilmente svilupparsi l’idea dell’immortalità dell’anima, e che il mondo sulla base del quale è stato scritto molto del Nuovo Testamento era un mondo in cui la fede nell’immortalità era vivamente e fortemente rappresentata” (p. 75)
Sarà bene ribadire che Barr in questo capitolo non ritiene d’aver dimostrato che l’Antico Testamento parli dell’immortalità dell’anima, ma solo che sia quest’opzione di lettura sia quella avversa sono entrambe del tutto ingiustificate e dunque solo la previa adozione di un punto di vista pregiudiziale può orientare alla lettura dei testi in senso monista o dualista. E siccome il monismo non è più scontato, esso non ha alcun diritto di prelazione, né alcun diritto d’essere considerato la concezione più ovvia sino a prova contraria. Ancora una volta cioè l’interpretazione soggettiva e personale la fa da padrone.
Lo stesso può dirsi del Nuovo Testamento: caduta l’idea di un monismo non solo nell’AT ma soprattutto nel giudaismo coevo a Cristo, non c’è nessun bisogno delle fantasiose interpretazioni che vanno oltre il senso immediato dei testi. Viene da chiedersi infatti perché mai l’autore dell’Apocalisse o Gesù Cristo si sarebbero messi ad utilizzare immagini basate su credenze che a dire dei TdG sarebbero errate e pagane se loro stessi non avessero condiviso la sostanza di quelle immagini. Da questo punto di vista sarebbe come se i TdG si mettessero a predicare e nella loro predicazione si mettessero a parlare di vampiri, elfi, gnomi per fare i loro esempi. Le interpretazioni alternative di passi come la parabola del ricco epulone o di passi come Ap 6,9-11 sono cioè gratuite e non necessarie, e si possono respingere al mittente. È veramente un circolo logico che da parte dei TdG si continui a chiedere dove sarebbero i passi neotestamentari che testimoniano una nuova concezione dell’anima, quando poi se essi vengono portati li si interpreta immediatamente come simbolici. E’ ovvio che con questo modo di argomentare non si può arrivare a niente, ed è anche futile continuare a chiedere agli interlocutori di mostrare passi che essi hanno già mostrato, tanto s’è già deciso in anticipo che non li si vuol leggere quello che c’è scritto ed essi ricadranno nel guazzabuglio dei passi da intendere simbolicamente. Il prof. Gramaglia descriveva con queste parole l’esegesi dei Testimoni di Geova: “Emerge con evidenza il metodo di lettura della Bibbia, abituale nei Testimoni di Geova; se un testo è applicabile alla loro ideologia religiosa, essi lo intendono in senso letterale; se invece non è conciliabile con le loro storie o fantasie, esso viene stravolto e manipolato con ogni sorta di allegorie; il criterio ermeneutico fondamentale non è quasi mai fondato sulle tipicità storiche e letterarie dei brani biblici, bensì sul sistema religioso già del tutto precostituito.” (Pier Angelo Gramaglia, Perché non sono d’accordo con i Testimoni di Geova, Piemme, pag. 168)
Non che ci sia nulla di errato ad intendere alcuni passi delle Scritture simbolicamente, ma siccome la scelta di quali passi rientrino in questa tipologia è del tutto aleatoria e soggettiva è inutile continuare a discutere. I passi che testimoniano il distacco del NT da un presunto monismo infatti ci sono, oppure non ci sono, a seconda delle scelte ermeneutiche di partenza, cioè dell’assunzione a priori, del tutto gratuita, di quali sono i passi da prendere alla lettera come portatori di un’antropologia e quali invece da intendere allegoricamente. Ulteriori richieste di documentare la credenza dell’immortalità dell’anima nel NT sono dunque ingenue, perché si scontrano con l’impossibilità di avere una lettura trasparente dei testi che ci consenta di capire dove ci sono simbolismi e dove non ce ne sono.

Ad maiora

Federico Ferrari
Presentazione


Alla base delle scelte fondamentali del Nolano - a Londra come a Roma -, c'era il convincimento di appartenere alla "casa" dei filosofi, e che ad essa bisogna essere sempre fedeli, anche nei rapporti con i potenti della Chiesa e dello Stato, perché la casa della filosofia è la casa della verità: in un modo intelligente e anche astuto, certo, ma sempre fedeli. (Michele Ciliberto)
enkidu
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Messaggio da enkidu »

grazie Poly, mi ricordo che ne avevi parlato in alcuni post con argomentazioni accurate ed approfondite, ma è interessante poter leggere il testo
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polymetis
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Messaggio da polymetis »

Vorrei aggiungere alcune cose prese dal testo di James Barr su quanto i pregiudizi possano ottenebrare alcuni, persino taluni sporadici studiosi. Il fatto che nel giudaismo medio alcuni gruppi come i farisei ed esseni credessero all'immortalità dell'anima, a causa delle chiare parole di Giuseppe Flavio su questo argomento, è pacificamente accettato dai più. Bisogna però riferire per completezza la tesi di Stendahl che, completamente ottenebrato dall'idea che gli ebrei dovevano essere monisti, ha bellamente deciso che sebbene più d'un brano di Flavio parli d'immortalità dell'anima, e di anima che sopravvive alla morte del corpo, bisogna bellamente ignorare la testimonianza perché può darsi che Giuseppe Flavio, per far piacere ai suoi lettori pagani, inventasse cose a caso e presentasse in realtà la credenza della resurrezione, sebbene parli di immortalità dell'anima che sopravvive alla morte del corpo.
Ora questa argomentazione è un modo chiaro e tondo per dire: sì, io leggo quello che vediamo tutti, ma decido che non mi va bene e dunque scelgo arbitrariamente di pensare che Flavio stesse fingendo per non scandalizzare i Greci. Perché, si badi, il testo è chiarissimo, e dunque solo una previa deliberazione ideologica che ritiene un' antropologia duale impossibile tra i semiti potrebbe stravolgere testi tanto chiari. In realtà, come argomenta James Barr, visto che nel medio giudaismo, come emerge da un mucchio di fonti intertestamentarie, l'immortalità dell'anima era un tema ben noto, non c'è alcun bisogno di stravolgere un testo così chiaro inventandosi di sana pianta che Flavio forse parlava d'altro, solo perché a noi non piace quel che leggiamo. Ecco cosa scrive James Barr col suo aplomb inglese: "Stendalh nella sua introduzione suppone che questa possa essere "una visione drasticamente apologetica della loro fede nella resurrezione", in altre parole che Giuseppe Flavio abbia espresso in termini greci una fede che in realtà era nella resurrezione, piuttosto che nell'immortalità dell'anima. Dubito molto di ciò..." (p. 61)

Ovviamente spetterebbe allo Stendalh portare le prove che renderebbero necessaria questa lettura forzosa, visto che la lettura del testo così com'è, alla luce delle credenze del medio giudaismo già menzionate, non presenta alcun problema.
Inoltre questo processo alle intenzioni di Flavio, oltre che del tutto congetturale, è ridicolmente privo di base testuale. Sarebbe già un'ipotesi indimostrabile suggerire che Flavio eviti di parlare della resurrezione per non molestare i suoi lettori greci, figurarsi se si può arrivare a congetturare che invece parli di tutt'altro con l'intento segreto di mascherare tale credenza. Comunque, l'ipotesi che Flavio finga, riconosce implicitamente che il senso del testo preso alla lettera è il contrario di quello che Stendalh vorrebbe.
Quanto a Giuseppe Flavio non occorre dire che egli non parla di resurrezione perché aveva paura di apparire molesto ad un ipotetico gruppo di lettori greci, assai più banalmente si può pensare che, come ogni buon autore, sia interessato a fare un confronto tra le credenza circa l'anima dei greci e dei farisei proprio perché entrambi avevano tale credenza in comune, mentre non parli di resurrezione perché, sapendo che i suoi lettori greci non avevano tale credenza, non è interessato a proporre ai suoi ascoltatori un confronto. Infatti Flavio fa un confronto fra i destini paradisiaci dell'anima presso esseni e farisei con le "Isole beate" della mitologia greca; e questo non a causa di una indimostrabile intenzione di nascondere la fede nella resurrezione, bensì solo perché sceglie programmaticamente di parlare di quella parte dell'escatologia esseno\farisaica che, in tutta la sua veridicità, si prestava ad un raffronto maggiore col pensiero greco. La letteratura giudaica intratestamentaria, si legga ad esempio Henoch, aveva infatti sviluppato una colorita concezione dei luoghi di pena per le anime sottoterra, e dei luoghi di piacere per i beati, sicché il confronto che fa Flavio colle Isole Beate non è per nulla campato per aria ma è pienamente compatibile col giudaismo dell'epoca.
Il fatto che altrove Flavio, nel Contro Apione, parli di resurrezione, non fa ovviamente nessun problema. Farebbe problema se le due cose si escludessero, invece convivono perfettamente e si completano a vicenda, tanto nel giudaismo medio quanto nel cristianesimo moderno.
Per di più Flavio non si limita a dire che esseni e farisei credono all'immortalità dell'anima, ma ne dà tutta una colorita descrizione, che non si capisce cosa ci stia a fare, nella sua sovrabbondanza di particolari incompatibili col monismo, se fosse solo uno schermo velato per alludere alla resurrezione. Quando si mette ad esempio a dire che la credenza comune era che le anime volteggiassero nell'aria, questo particolare che senso avrebbe nel quadro dissimulatorio immaginato dallo Stendahl (a cosa corrisponderebbero questi tratti all'interno della fede nella sola resurrezione da lui immaginata)?
Il problema è sempre lo stesso: perché si dà per scontato una separazione tra il pensiero greco e quello ebraico, al punto che ogni volta che si sentono descrizioni variamente vicine al platonismo occorre mettersi subito a sospettare? La Palestina è forse uno stato su Marte?

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Messaggio da arwen »

Buondì Polymetys!. E' sempre un piacere leggerti. :ciao: :bravo:
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Messaggio da Adelfos »

enkidu ha scritto:grazie Poly, mi ricordo che ne avevi parlato in alcuni post con argomentazioni accurate ed approfondite, ma è interessante poter leggere il testo

Qualcuno ricorda il link? sarebbe interessante leggere la discussione...
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polymetis
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Messaggio da polymetis »

Adelfos ha scritto:
enkidu ha scritto:grazie Poly, mi ricordo che ne avevi parlato in alcuni post con argomentazioni accurate ed approfondite, ma è interessante poter leggere il testo

Qualcuno ricorda il link? sarebbe interessante leggere la discussione...
Veramente m'ero limitato a segnalare il libro.

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Mario70
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Messaggio da Mario70 »

Grazie poly, era esattamente quello di cui avevo bisogno, mi sarà molto utile...
:ok: :lingua:
"La cosa più triste è che molto spesso chi viene ingannato, o illuso, tende a rimanere strettamente ancorato a quello in cui crede nonostante le evidenze indichino chiaramente che la realtà è diversa. Forse è talmente affezionato alle sue credenze che preferisce chiudersi gli occhi e tapparsi le orecchie di fronte a qualunque cosa possa farle vacillare."
(Torre di Guardia 1/9/2010 p 10)
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