Avevo la necessità di conoscere meglio me stessa, dedicarmi alle cose più importanti che tengono in piedi tutto il mio essere, letteralmente. Non che non le conoscessi del tutto ma, come acque indisciplinate, ad ogni pioggia si spargevano da ogni parte creando ovvi problemi "logistici". Necessitavano di un'opera di inquadramento, ogni cosa al suo posto, libera di scorrere ma entro i propri argini. Al contempo dovevo dare sfogo a ciò che per troppo tempo, non comprendendolo, non riuscendo a gestirlo, mi affogava ad ogni alta marea.
Mi sono resa conto che la mia vita ha fondamentalmente due sole cose da cui non può prescindere ed attorno alle quali orbita, come un pianeta di un sistema solare alieno attorno ad una stella doppia. L'una è l'amore per il mio compagno e l'altra è il demone dell'arte che vive in me. Fino a poco tempo fa, che fosse per modestia, incomprensione o incompetenza, non riuscivo a descrivere questa esperienza che vivevo e vivo ogni giorno. Stavo malissimo. Mi sentivo sempre non all'altezza, tormentata dall'urgenza, dall'esigenza, di esprimermi, di dire, lasciar uscire il pensiero e l'emozione, di "scoppiare" letteralmente, come un bubbone...come se l'arte fosse una malattia che ti infesta e necessita di usarti per contagiare gli altri, anche a costo di farti stare male.
Alcune settimane fa ho scritto qualche riga, una notte mentre Giulio dormiva ed io avevo del buon vino a tenermi compagnia, forse ha contribuito . Non è un trattato ma credo renda l'idea di quel che vorrei comunicarvi. Che cos'è lo spirito che anima una persona che si esprime in qualunque forma artistica? È solo un appunto preso a margine, non elaborato, ma rileggendolo stanotte ho pensato che riassumesse bene un concetto che non saprei meglio esporre.
"L'arte...è come un parassita che ti porti dentro. Ti divora lentamente, ti consuma. Penetra nelle tue cellule e prolifera. Desidera farle esplodere per propagarsi. Se non lo espelli verso l'esterno come lui vuole che sia, per contagiare gli altri, diventa veleno. E ne muori, semplicemente. Senza tanto rumore. Ti spegni pian piano ad ogni giorno passato a timbrare il cartellino, ignorandolo.
L'arte non è per nulla romantica nè dolce nè paziente con il proprio ospite. Lo brama per sè e solo per il suo fine. Diffondersi.
Con una lentezza consapevole la senti agire in te, indipendentemente dalla tua volontà. Sai che sta accadendo in fondo al tuo essere, nel senso completo del termine, ma non sai come esternarlo con la dignità che merita...quel germe che vive in te e di te; vuoi darlo alla luce ma è un feto abnorme, di sconsiderata misura. E combatti tra la paura di tener tutto dentro finché non ti avrà succhiato ogni linfa e la paura di un doloroso parto di un abominio che nella tua testa è stato concepito.
L'arte non è un mestiere, non è una imbellettata vocazione al sublime ed al bello. L'arte vive in te in autonomia, non ti ama, ti desidera come strumento per venire alla luce. Se l'arte è stata inseminata in te non hai scelta; ne sei posseduto e ogni resistenza è a tuo discapito. Peccato che pochi siano coloro che hanno il coraggio, il modo e gli strumenti per accontentarla, per farla venire al mondo nella forma e nel modo che Lei (Lei sola importa) desidera ...il più sublime, il più violento, il più sentito, il più straziante e al contempo travolgente e commovente che tu possa donarle.
Quei pochi sono i veri "Artisti" che continuano a parlare con le loro opere, al di là dell'impietoso tempo che gira le lancette dell'orologio senza posa, a generazioni e generazioni a venire in un'immortalità perpetua; un'immortalità che non appartiene all'artista di per sé, non è un suo merito personale. Ha, invece, quest'ultimo, l'indiscusso merito ed onore (e ora che ne scrivo mi rendo conto di quanto sia un'impresa riuscirci) di aver dato forma e sostanza al demone dell'arte che aveva scelto di abitare proprio in lui. E che sia per una predisposizione genetica o per un contagio, o per la combinazione di entrambi i fattori, il risultato non cambia.
L'arte, una volta che ti ha infettato, è una cronica malattia di cui non puoi più fare a meno. Se rimane in te, ti uccide. Se vuoi sopravviverle devi darle sfogo e portarla alla luce. Se non sei all'altezza del compito e non trovi la forma da darle, sei destinato ad esserne divorato, tormentato e soffocato. Se vuoi vivere...dalle vita."
Bene, fin qui sembra lo sproloquio di una donna che Freud avrebbe gradito studiare come caso di disturbo psichiatrico, tra isterismo e paranoia. Purtroppo queste parole sono del tutto basate su fatti e "prove" che mi hanno portata a tali conclusioni. L'ho vissuto sulla mia pelle.
Ogni singolo giorno il tempo dedicato al lavoro ed altre prosaiche incombenze quotidiane mi fa solo desiderare di morire, mi trascina in un senso di vuoto ed inutilità totale. Aberrante imitazione di Vita. Quando invece riesco a scrivere, qualsiasi cosa, creare qualcosa, dare vita a personaggi che una volta fuori da me vivono nei racconti che ho pensato per loro (e con loro) mi sento viva davvero. Ognuno di essi porta in sè una parte di me, e al contempo è un individuo che, una volta che si è affacciato nella mia mente, vive di vita propria; riesco a descrivere ogni suo stato d'animo, ogni suo gesto e reazione, perchè è come se lo conoscessi da sempre. È altro da me perchè lo racconto, creo la sua storia, gli dò vita, ma al contempo è parte di me perchè porta i miei stessi geni, ha il mio DNA per così dire, ma come un figlio non è uguale a me in tutto e per tutto e prende decisioni autonome. Di conseguenza da un certo punto in poi io descrivo solo la sua storia. In qualche modo i miei personaggi mi conducono, una volta esternati, nelle loro esistenze.
Forse dovrei chiarire qualche dettaglio a questo punto...facciamo qualche passo indietro di una manciata di settimane; in un momento in cui mi sentivo totalmente inerte e senza senso, al limite del sopportabile, ho avuto un'idea. Ho chiesto a Giulio di fare un gioco. La regola era una: mi dici cinque parole a caso, completamente a caso, un sostantivo, un aggettivo, un verbo ed un avverbio più una connotazione di spazio o di tempo. Le prime cose che ti si affacciano alla mente. Io poi ci avrei dovuto scrivere un breve racconto rispettando i cinque paletti. La cosa è stata stimolante e vivificante! Ne avevo bisogno e non lo sapevo!
Poco alla volta sono nate delle storie. Inizialmente slegate. Poi ho realizzato che quei personaggi mi stavano parlando, mi raccontavano loro le loro storie e tutte erano connesse! E considerate che ogni storia partiva da una cinquina di parole differente, eppure dopo poco tutti i punti salienti dei racconti riconducevano ad un quadro unico e più ampio che non conosco ancora ma che si compone da solo come un grande puzzle.
Arrivata all'ultimo, per il momento, racconto capisco che tutti i protagonisti sono in qualche modo me, ma non sono me.
Mi guidano. Loro conoscono il finale, non io. Io sono il mezzo per renderle reali quelle vicende che mi si mostrano pagina dopo pagina.
Non sono io che penso alle storie. Le storie sono già lì, vogliono solo essere raccontate, espresse, intrecciate, vogliono uscire ed essere narrate. Arrivano nel momento che meno mi aspetto, comincio a scrivere ed il personaggio mi prende per mano e mi porta sulla strada che ha scelto. Io devo solo seguirlo e tutto si srotola come un gomitolo davanti ai miei piedi. Ai nostri piedi.
Mi ricorda quello che era il concetto di scultura secondo Michelangelo, se non erro. La statua, l'opera d'arte, è lì presente perfetta e compiuta imprigionata nel blocco di marmo. Sta allo scultore artista liberarla dalla sua scorza e metterla alla luce. Partorire una statua, partorire una storia. L'artista è solo il mezzo di cui si serve il demone dell'arte per liberarsi dai vincoli della materia e del pensiero inespresso.
Questo alla fine è il sunto del tutto. L'opera è lì esistente di per sè ed in sè, necessita solo di qualcuno che la renda viva e visibile, e le serve un "ospite" da infettare, un ospite in grado di renderle giustizia portandola alla luce per contagiare altri con il senso di "bisogno dell'arte". Pena per il fallimento? Tormento, frustrazione, dolore, fino ad impazzire.
Vaneggio?
Per favore siate clementi nei giudizi riguardo a ciò che ho scritto. Chi mi conosce sa che sono una persona molto razionale e poco incline alla credulità senza prove. Ma quello che vi ho descritto è reale come il fatto che la sigaretta che ho tra le dita brucia.
Anche quello che ho dentro brucia. E non posso soffocare questo fuoco senza bruciarmi le mani, sarebbe inutile e controproducente. Voglio che questo fuoco respiri, divampi, bruci l'inutile gabbia in cui è confinato e accenda piccole candele e lampade nelle case di tutti quelli che lo desiderano.
Ho condiviso questi pensieri con voi perché non posso farne a meno. Perchè magari anche qualcun' altro si riconoscerà in questa situazione o, al contrario, mi dirà che sto sbagliando del tutto.
Qualunque sia la vostra opinione vorrei conoscerla e confrontarmi con voi. E se mi venite a dire che non c'entra niente coi Tdg vi vorrei far notare che tutte queste esternazioni non avrebbero spazio in un contesto così limitato come il sistema di pensiero ingabbiato della comunità dei seguaci del corpo direttivo e delle sue di esternazioni, per non parlare del nuovo mondo dove la vedo grigia per gli artisti
Vi lascio con una canzone. L'interprete è una cantante polacca che si può definire rappresentante di quella corrente detta della "poesia cantata" decenni orsono. Usava interpretare testi di poeti polacchi su musiche appositamente composte per il testo ma anch'esse con precisi riferimenti a composizioni di grandi autori del passato.
Anzi, facciamo due canzoni...questa la adoro, non potevo non metterla