Allora, ho letto questa sera stessa il capitolo sulla crocifissione, e non ci ho trovato nulla di nuovo. Un condensato di tendenziosità e assenza di qualsiasi approccio storicamente sensato al problema. Ne faccio una breve recensione. Qui siamo in rete, e questo libro dovrebbe essere confinato a chiacchiere informali da rete, continuo a pensare che l’idea di Teo di recensirlo in una rivista scientifica sia una follia.
Veniamo al dunque.
Per prima cosa l’autore si getta in una distinzione che ai fini di una ricerca sulla crocifissione non dovrebbe avere nessun peso. Distingue infatti tra fonti che narrano eventi in cui l’autore sia stato testimone oculare dei fatti che riporta, in secondo luogo fonti in cui l’autore descrive fatti realmente accaduti, ma di cui non è stato testimone oculare, e in terzo luogo fonti che descrivono fatti immaginari (ad esempio, inventare la storia di due personaggi in un romanzo).
Tutto ciò serve unicamente a declassare di importanza le fonti che narrano storie inventate. Ma non si vede che cosa c’entri il fatto che l’autore descrive la croce in una cornice inventata col fatto che egli sia o meno in grado di dirci com’era fatta una croce.
Supponiamo che tra 3000 anni qualcuno volesse sapere come si viveva a Venezia nel 2013, e che tra le poche fonti superstiti ci sia un romanzo d’amore scritto da sottoscritto, che lavora all’università di Venezia. Costoro, gli archeologi del 5013 d.C., vogliono sapere se nel 2013 il “Ponte dei sospiri” fosse ancora in piedi, e che forma avesse. Orbene, se io avessi ambientato questo romanzo d’amore nel 2013, ed essi leggessero in esso che i due amanti si baciarono guardando quel ponte, di cui io magari descrivo pure la forma, gli archeologi che vivranno tra 3000 anni potranno dedurre ragionevolmente che il Ponte dei Sospiri nel 2013 era ancora in piedi, e che avesse la forma che un veneziano del 2013 descrive. Questo perché, indipendentemente dal fatto che io inventi la trama di un romanzo, abitando a Venezia so perfettamente com’è fatta. Allo stesso modo non ce ne frega nulla se le commedie di Plauto descrivono fatti inventati perché sono commedie, quello che conta è che Plauto era uno scrittore latino del III sec a.C. e dunque sapeva perfettamente com’era fatta una croce, ed infatti la infila nei suoi scritti.
Un discorso simile va fatto per testi ancor più immaginari, cioè la descrizione di visioni o allegorie, dalla quale si può trarre l’idea che la forma dello stauros fosse una croce. Non ce ne frega nulla, neppure in questo caso, che si tratti di allegorie e simbolismi. Quello che conta è che
se questi autori cercano simbolismi cruciformi, è perché avevano previamente in mente l’idea che lo stauros fosse una croce. Nessuno di costoro cioè, sarebbe andato a scovare questi simboli, dicendo che ad esempio la croce assomiglia ad un uomo con le braccia divaricate, se prima non avessero avuto in mente la realtà concreta di una croce. Quindi vediamo di non ragionare al contrario. E’ perché i Padri della Chiesa sapevano che le croci hanno quella forma, che essi vanno disperatamente nella natura alla ricerca di oggetti cruciformi. Se prima non avessero avuto un’idea di com’è fatta una croce, banalmente non avrebbero saputo cosa cercare. E se avessero pensato che la croce fosse un triangolo, avrebbero cercato altri simboli, paragonandola magari ad un delta maiuscolo (che si scrive Δ), anziché ad una T, come fanno.
Questo ho trovato di assai irritante nel modo in cui l’autore tratta i testi di personaggi come Ireneo, Tertulliano, o lo pseudo-Barnaba. In primo luogo dice che non si tratta di testimoni oculari, e poi tenta di squalificare i loro testi dicendo che si tratta di testi simbolici che descrivono allegorie. Ebbene, e che ce ne frega che siano allegorie? Sono allegorie costruite per l’appunto sul fatto che la forma dello stauros era una croce, esse presuppongono la forma cruciforme e si basano su quella. Era idea cioè di questi Padri che gli stauroi fossero a forma di croce. Il che forse non avrà rilevanza per Arduini&Co., ma queste persone vivevano sotto l’impero romano, in un’epoca dove la crocifissione era ancora praticata, quindi ne sapevano un tantino più dei TdG e dei loro apologeti su come fossero fatte queste croci.
Non c’è nulla di strano, ed anzi è un’operazione ovvia, che s’utilizzino testi che trattano di allegorie o simboli, per ricostruire dei dati storici, ed infatti è ciò che accade comunemente. Viene da chiedersi come faccia l’autore a stupirsene.
Vi faccio un esempio riportandolo alla nostra epoca, in modo che possiate capire come gli storici odierni lavorano sui testi antichi. In questi giorni sto leggendo un libro di leggende scritte a fine Ottocento da Salgari, che si intitola “Le novelle marinaresche di mastro Catrame”. Il libro mette in scena un marinaio che racconta lugubri storie per spaventare i suoi compagni di bordo.
Supponiamo che sempre gli storici del tremila d.C., abbiano perso la conoscenza di come i marinai immaginavano Nettuno, il re del mare, e precisamente come immaginavano il suo scettro, che come sapete è il tridente.
Ebbene, in una delle novelle di mastro Catrame si racconta di come i marinai avessero l’usanza, credendo che il re del mare esistesse, di fargli un tributo ogniqualvolta una nave varcava la linea dell’Equatore. Si narra altresì che un capitano fu punito da Nettuno in persona per aver disatteso questa consuetudine, in quanto non credeva all’esistenza del dio marino. Nettuno dunque punì l’equipaggio blasfemo e miscredente mandando una tempesta che affondò la nave.
Mastro Catrame, per convincere i suoi amici che lo ascoltano che quella non era una tempesta casuale, ma era stata davvero mandata dal dio del mare, scrive che la nuvola che portava la tempesta aveva la forma dello scettro di Nettuno, in quanto aveva tre punte.
Che cosa possiamo dedurre? Che ovviamente, se Mastro Catrame vedeva in una nuvola a tre punte il segno che quello fosse lo scettro di Nettuno, allora lo scettro di Nettuno aveva tre punte. Infatti è un tridente.
Come vedete si tratta di un racconto di fantasia, un marinaio che riconosce il tridente di Nettuno in una nuvola che porta una tempesta. Eppure, ci dà l’informazione che all’epoca si credeva che lo scettro di Nettuno fosse proprio un tridente, cioè qualcosa a tre punte.
I riferimenti che possiamo trarre dalla letteratura antica sulla croce sono sovente di questo genere.
Artemidoro ad esempio dice che chi sogna una nave a vele spiegate sarà crocifisso, perché, ci dice il nostro autore, l’albero di una nave ha la forma di una croce.
Non si vede che cosa possa c’entrare il fatto che qui Artemidoro stia dando delle istruzioni per interpretare dei sogni, e non descriva eventi reali. Ciò che conta è che se va a dire a qualcuno che chi sogna una nave a vele spiegate, in realtà sta sognando una croce, è perché evidentemente nel suo cervello le croci avevano quella forma, altrimenti il collegamento non gli sarebbe venuto in mente. Se avesse pensato che gli stauroi sono a forma di palo, forse avrebbe scritto che chi sogna una torre verrà crocifisso. Invece associa allo stauros immancabilmente immagini cruciformi.
Ma veniamo ad un altro punto.
L’autore vuole sostenere che non esiste un mos romanorum della crocifissione, cioè che sia falso che il trasporto del patibulum vedesse poi il medesimo patibulum issato sulla croce.
A questo proposito ipotizza che la pena del trasporto del patibulm fosse in origine una pena diversa dalla crocifissione (il che tra l’altro può essere vero per le epoche più arcaiche), e che, se anche delle descrizioni ci parlano prima del trasporto del patibulum e poi della crocifissione, ciò non ci autorizza a dire che il patibulum trasportato fino al luogo dell’esecuzione venisse poi issato sulla croce.
Dunque, un verso come quello plautino:
Patibulum ferat per urbem, deinde adfigatur cruci.
“Che porti attraverso la città il patibulum, e poi sia appeso ad una croce” (Carbonaria, fr. 2)
verrebbe interpretato nel senso che il condannato trasporta il patibulum per la città, poi, giunto al luogo dell’esecuzione, lascia a terra il patibulum e viene issato senza di esso sulla crux (che ovviamente per i Testimoni autori del libro sarebbe un palo).
Funzionava così la faccenda? No. La lettura da dare è quella ovvia che danno tutti, senza le paranoie interpretative dei Testimoni di Geova. Artemidoro infatti dice infatti:
“l’uomo che deve essere inchiodato alla croce(stauros) prima se la porta (bastazei)” (Oneirocritica, 2.56)
Usando de facto lo stesso verbo e lo stesso sostantivo dei Vengeli:
“Gesù fu portato via, e portando la croce su di sé (bastazon auto(i) ton stauron), uscì verso il cosiddetto Luogo del Teschio”. (Gv 19,16)
Il fatto che Artemidoro ci dica che “chi è appeso allo stauros, prima se lo porta”, ci dice che lo stauros che si portava sulle spalle non veniva affatto deposto, ma era lo stesso sul quale si veniva appesi.
Si noti che Artemidoro dà una frase lapidaria e generalissima al presente, che testimonia una consuetudine, come quando noi diciamo “chi muore, non torna più indietro”, o frasi simili. Artemidoro similmente dice lapidario, testimoniando un modo di fare abitudinario: “ chi è appeso allo stauros, prima se lo porta”,
Or dunque, atteso che lo stauros cui il condannato veniva appeso, era lo stesso che si portava, qual era la forma di questo stauros?
Qui veramente con una faccia tosta notevole l’autore scrive: “Se preso alla lettera nelle sue affermazioni filosofiche, aggiungerebbe una ulteriore difficoltà, dichiarando quello che gli storici attuali attualmente considera improbabile: il trasporto della croce intera da parte del condannato. Il problema sarebbe risolvibile ammettendo che lo stauròs di Artemidro sia un singolo palo, a cui veniva inchiodato il condannato”.
E’ commovente vedere come quella testolina geovista usa la parola “filosofia”, termine che evidente accostato a qualunque cosa basta a squalificarla secondo l’autore, addestrato al verbo della Torre di Guarda. Io non so che cosa ci sia di filosofico in un testo che ti dice che se sogni l’albero maestro di una nave, allora stai sognando una croce. Né so soprattutto cosa c’entri la presunta “filosoficità” di un’affermazione con la squalifica della sua utilità storica. Ma, a prescindere da questo, è pure commovente come il nostro autore scarti l’idea che il testo vada preso alla lettera, perché, altrimenti, ciò comporterebbe che vi sarebbe il trasporto di una croce intera, e questo è considerato improbabile dagli storici.
Ma da quando i TdG, che credono che l’uomo abbia poco più di 6000 anni, e che Cristo morì su un palo, si curano di ciò che gli storici ritengono probabile? Davvero comico. E poi, chi ha mai detto che gli storici intendano il passo come il trasporto di una croce intera cui poi si veniva appesi? Gli storici pensano qualcosa di diverso, cioè che stauros fosse il nome tanto del solo patibulum (per sineddoche), quanto della croce assemblata. Sicché la frase vuol certamente dire, come c’è scritto, che allo stauros trasportato, poi si veniva appesi, però quello stauros (il patibulum) veniva issato su un palo già presente in loco.
Dunque lo stauros che si portava era il patibulum orizzontale, e sempre a quello stauros si veniva appesi, perché questo stauros era issato sulla croce.
Questa esegesi di Artemidoro, è l’unica possibile. Perché però non possiamo ipotizzare che “chi è appeso allo stauros, prima se lo porta”, si riferisca ad un singolo pezzo di legno, il palo verticale, come credono i TdG sia avvenuto per Gesù?
Ma perché Artemidoro stesso ci dice esplicitamente che la croce è fatta di
legni (al plurale), e proprio nello stesso passo in cui c’è la frase incriminata:
“Venire crocifissi è buon segno per tutti i naviganti, in quanto la croce è fatta di legn
i (ξύλων) e di chiodi come la nave, e l’albero maestro di questa è simile ad una croce” (ἡ κατάρτιος αὐτοῦ ὁμοία ἐστὶ σταυρῷ)". (Artemidoro, Oneirocritica 2.53)
E poi Artemidoro ci parla della croce in altri passi, e ci fa capire chiaramente che aveva in mente una croce a due legni. Oneirocritica, 1.76 scrive infatti che quelli coloro che sognano di danzare saranno “crocifissi” (σταυρωθήσεται) a causa “delle loro braccia distese”(τὴν τῶν χειρῶν ἔκτασιν).
Dunque ricapitoliamo: Artemidoro ci dice, facendo un’affermazione generica “chi è appeso allo stauros, prima se lo porta”. Ma questo stauros a cui si viene appesi non è
né un palo semplice (perché Artemidoro usa legni della croce al plurale, e la paragona all’albero della nave col pennone, e a gente che danza con braccia divaricate), e non è neppure una croce intera, perché sia noi che i TdG siamo d’accordo che sarebbe stata troppo pesante. Ergo lo stauros che si portava era il patibulum, e lo stauros cui si veniva appesi era il risultato dell’unione di questo legno con l’altro già piantato. Ergo qual è il modo più ovvio e giusto di leggere la frase plautina “Patibulum ferat per urbem, deinde adfigatur cruci”/“Che porti attraverso la città il patibulum, e poi sia appeso ad una croce”? Quello che abbiamo detto, e che testimonia Artemidoro, cioè “chi è appeso alla croce, prima se LA porta”. Il patibulum trasportato dallo schiavo, non veniva mollato sul posto, ma era quello a cui veniva appeso.
Tra l’altro, mi preme far notare, che l’esegeta geovista non si rende conto che la sua esegesi è impossibile perché cita la traduzione di Artemidoro delle edizioni Adelphi, la quale rende “la croce è fatta di legnO e di chiodi”. Come si vede, la resa italiana ha il singolare, ma si tratta di una traduzione distratta, perché in greco c’è un genitivo plurale. L’autore del capitolo sulla croce non se n’è accorto perché non è andato a vedersi il testo originale.
Ma sono altre le fonti che ci dicono che il legno orizzontale veniva innestato in quello verticale. Essendo decine ovviamente le fonti che parlano di un braccio trasversale della croce, qui mi limito a citarne alcune che non solo menzionano il braccio trasversale, ma parlano del fatto che esso venisse innestato:
Giustino scrive:
“Il corno unico è infatti il legno ritto la cui parte superiore si sporge in alto come un corno
quando viene innestato un legno trasversale, le cui estremità vengono ad essere come corna a lato dell’unico corno” (Giustino, Dialogo con Trifone 91)
Anche Agostino, che i romani a differenza dei TdG li conosceva, vivendoci assieme, ce ne parla. Commentando Ef 3,17-18, in cui si dice “Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia
l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità, e conoscere l'amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio”, il santo di Ippona vede nelle parole
l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità un’allusione alle 4 braccia della croce, e così commenta:
“In questo testo sacro ci viene mostrata la figura della croce. Cristo, che morì perché lo volle, morì pure nel modo che volle. Non senza ragione quindi scelse questo genere di morte, ma solo per apparire anche in ciò maestro della larghezza, lunghezza, altezza e
profondità del suo amore.
La larghezza sta nella traversa che s'inchioda sopra la croce e simboleggia le opere buone, giacché su di essa vengono distese le mani. La lunghezza è nella parte che si vede dall'alto della croce sino a terra: ivi si sta per così dire dritti, cioè si persiste e si persevera; virtù che è attributo della longanimità.
L'altezza, è nella parte della croce che, a partire dal punto dove è inchiodata la traversa, sopravanza verso l'alto, cioè verso il capo del crocifisso, poiché l'aspettativa di coloro che sperano è rivolta verso il cielo. La parte della croce che non è visibile, perché confitta nella terra non si scorge, ma da cui si eleva tutto l'insieme, significa la profondità della grazia concessa gratuitamente.” (Lettere, 140, 26)
Altra testimonianza viene da Firmico Materno, il quale ci dice, parlando di un crocifisso: “patibulo subfixus in crucem tollitur" (Firmicus Maternus, Mathesis 6.31.58)
“Inchiodato al patibulum, è fatto ascendere sulla croce”, dove apprendiamo che prima si veniva fissati al patibulum, e poi appesi a questo si veniva issati sulla croce.
A questo proposito i commenti del libro geovista sono un po’ imbarazzanti, per tutti i motivi sopra spiegati. L’autore infatti si affretta subito a spiegarci che il libro parla di astrologia. E se noi risponderemmo istintivamente “e chi se ne frega! Che cosa c’entra?”, già vediamo i suoi timorati correligionari che leggono il libro associare subito nella loro mente l’astrologia al demonio, e dunque squalificare come proveniente da Satana ogni informazione ivi contenuta. Esattamente come nel caso di Artemidoro, che parlava di sogni, anche in questo frangente non si vede che cosa c’entri la materia di cui parla Firmico, che sia astrologia o un libro di cucina. Una persona può lasciarsi sfuggire particolari utili agli storici quale che sia la materia che sta trattando. Il testo geovista è pieno di frasi settarie senza alcun senso scientifico intrise di Bible Belt, come questa perla su Firmico: ”il testo in questione è altamente filosofico, non cristiano, e chiaramente influenzato da religioni pagane”.
E’ vero che Firmico probabilmente non s’era ancora convertito al cristianesimo allorché scrisse il Matheseos libri VIII, ma non si vede la logica con cui i TdG sono giunti a questa conclusione. Perché mai infatti un testo “filosofico” dovrebbe essere per ciò stesso non cristiano, e che cosa c’entri con l’argomento della crocifissione che il libro di Firmico sarebbe, a detta degli autori, “influenzato da religioni pagane”? Questa retorica geovista, fatta per buttare fumo negli occhi e compiacere i propri correligionari, non ha proprio alcun senso accademicamente parlando, a meno che non ci vogliano dire che l’idea della croce di Cristo derivi da qualche idea pagana. Ma il libro non lo dimostra in alcun punto. Forse lo danno per scontato implicitamente gli autori, che in questo si rifanno ad una retorica pseudo-scientifica intrisa di comparativismo selvaggio ottocentesco che ogni tanto la WTS propugna nei suoi opuscoli, vedendo nella forma della croce chissà quale retaggio pagano. Ed in parte la WTS ha ragione, sebbene non alla maniera in cui crede. La croce è senz’altro pagana, infatti i romani, che erano pagani, hanno ucciso Gesù su questo strumento.
Inoltre, com’è possibile che gli autori si sognino di dire che questa fonte è del V secolo (p. 270), se esso è della prima metà del IV? Lo sappiamo dal fatto che il
De errore, scritto successivo che testimonia l’avvenuta conversione dell’autore al cristianesimo, è dedicato agli imperatori Costante e Costanzo, e dunque il Matheseos libri VIII dev’essere d’un epoca ancora precedente. Forse gli autori volevano dare ad intendere che l’autore visse in un’epoca in cui l’impero romano era già crollato? Ciò è falso. Ma anche se fosse stato un autore del sesto secolo, come potrebbero pretendere costoro di saperne più di lui? Non è che, caduto l’impero, la memoria di cosa accadeva nei secoli precedenti fosse scomparsa. C’erano le biblioteche, la memoria collettiva, e perché no, pure le raffigurazioni della crocifissione su qualche parete, a mo’ di graffito, che sono giunte persino sino a noi.
Ma torniamo al nostro problema, cioè la fissazione del patibulum issato sullo stipes. Anche a livello iconografico, una delle più antiche testimonianze grafiche della crocifissione cristiana, è quella del portale di Santa Sabina a Roma, basilica paleocristiana tra le più antiche, edificata da Pietro di Illiria tra il 422 e il 432. Ebbene, cosa vediamo? Vediamo che della gente che nell’impero romano ci viveva, per raffigurare la crocifissione avesse in mente che ci fossero delle impalcature atte a sollevare il patibulum ed issarlo sulla croce:
Perché questa gente, questi romani, avrebbero dovuto immaginarsi un’impalcatura del genere, se non per il fatto che essi sapevano che così si crocifiggeva?
Già mi immagino però l’obiezione: alcune fonti ci dicono che Costantino abolì la crocifissione, perché essendo lui cristiano, riteneva che non si dovesse più eseguire questa pratica, la cui memoria era associata al Salvatore. Quindi, le persone nate dopo la metà del IV secolo, in teoria non avrebbero potuto sapere come si crocifiggeva.
Ebbene, questa obiezione è del tutto priva di senso. Come già detto sarebbe folle credere che noi possiamo saperne più di gente che viveva nell’impero romano di come avveniva la crocifissione, anche dopo un secolo che la crocifissione fu abolita. In Italia ad esempio non impicchiamo nessuno da un bel pezzo, avendo noi abolito la pena di morte, ma questo non vuol dire che non sappiamo come si impicchi qualcuno. E questo perché banalmente siamo inseriti in una cultura che ci tramanda la memoria dell’impiccagione come pena. Abbiamo romanzi che la descrivono, sceneggiati storici che la mostrano, illustrazioni d’epoca che possiamo guardare, ecc. Similmente nell’impero romano le vestigia di quel modo di fare, che sono arrivate addirittura fino a noi (si pensi al graffito del palatino, a quello della taverna di Pozzuoli), erano ancora fresche. La loro letteratura parlava di crocifissioni, potevano ancora vederne riproduzioni, visto che noi pure le abbiamo, le biblioteche, le loro scuole, stava ancora tutto in piedi, ed in Italia il sistema scolastico continuerà a funzionare fino a VI secolo inoltrato trasmettendo la cultura imperiale.
Quello che invece manca del tutto, se vogliamo essere pignoli, è l’attestazione della procedura immaginata dalla WTS per la messa a morte di Gesù, che a questo punto non sappiamo neppure se coincida col pensiero dei TdG internettiani. Infatti, secondo i TdG internettiani, il palo che Gesù portò, è lo stesso cui venne appeso? O forse adesso credono che si trattò del trasposto di un patibulum, e dunque di un singolo legno orizzontale, ma che poi quel palo fu lasciato a terra, e Gesù fu appeso ad un altro palo singolo che stava là sul posto?
A me pare che la WTS non sposi questa tesi, ma che creda che il palo che Gesù portò, fu poi quello cui fu appeso. Se è così, dove mai ci sarebbe attestazione di una pratica simile?
Infatti,
da quale testo è mai possibile ricavare che qualche condannato a morte abbia portato sulle spalle il palo verticale, che questo palo poi sia stato piantato, e ad esso il condannato sia stato poi inchiodato? Da NESSUNO. I TdG che fanno le pulci a noi per il rituale del mos romanorum descritto dagli studiosi, dovrebbero invece guardare in casa propria e dirci dove sarebbero le fonti che rendano probabile la loro versione. Infatti i testi delle fonti antiche si dividono in due categorie, quelli che ci dicono banalmente che viene trasportato uno stauros, e che sono inutili perché non ci permettono di capire se fosse il palo verticale o quello orizzontale, e poi ci sono i testi che sono specifici, ma ci permettono di capire che ad essere trasportato è il patibulum orizzontale.
Ed infatti i geovisti tentano di disinnescare questi testi, dove si parla del trasposto del legno orizzontale, e sono molti, dicendo che non è detto che quel legno orizzontale poi venisse issato sul palo. Ciò, come abbiamo visto, è falso, perché il legno orizzontale veniva poi inchiodato a quello verticale. Ma anche se non potessimo dimostrarlo, in ogni caso avremmo dei testi che parlano del trasporto di un legno orizzontale sulle spalle, e ancora non avremmo nessun testo che parla del trasporto di un palo verticale. Cercare di demolire le prove della versione altrui, non produce automaticamente prove che suffraghino la propria versione. Come ripeto abbiamo solo due tipologie di testi: o sono ambigui perché si parla solo di “stauros” trasportato, o parlano del legno orizzontale. E dunque, se dovessimo interpretare i brani equivoci sulla base di quelli chiari, quello che se ne potrebbe ricavare è che anche in quelli ambigui, come lo sono Caritone e Plutarco, si parli del trasporto di un legno orizzontale.
Come già detto dunque la pratica immaginata dalla WTS non ha alcun fondamento, le domande sono le seguenti:
1)Da quale brano ricaviamo che lo stauros trasportato era inequivocabilmente il legno verticale?
2)Da quale fonte apprendiamo che questo legno veniva piantato in loco?
3)Da quale fonte apprendiamo che questo singolo legno verticale trasportato, dopo essere stato piantato a terra, era quello cui si veniva appesi?
Quando si parla di mos romanorum della crocifissione, non si intende dire, come i TdG vogliono dare a bere, che gli storici credano che i romani appendessero la gente sempre con questo rituale. Se avevano fretta, potevano benissimo appendere una persona su un singolo palo. Quello che dicono gli storici invece è altro, e cioè che nel racconto dei vangeli si riconosce una precisa maniera di procedere, che non veniva fatta sempre, ma, qualora venisse fatta, prevedeva queste tappe, cioè il trasporto di un patibulum, che poi veniva issato su una croce.
Non vorrei essere frainteso, e non vorrei che la mia frase suonasse arrendevole. Quando dico che i romani non appendevano sempre così, non intendo dire che la ricostruzione della WTS sia possibile.
Infatti, quando appendevano a dei semplici pali, i romani previamente non facevano trasportare nulla al condannato. Dunque l’affermazione degli storici è la seguente: se c’è un trasporto previo di qualcosa, allora quello è il trasporto di un patibulum orizzontale, e noi siamo all’interno del rituale della crocifissione, cioè quel patibulum veniva issato sulla croce.
Se c’era il trasporto previo, allora siamo nel rituale della crocifissione. Se non c’era, potevano appendere come gli pareva, anche direttamente ad un palo singolo. Ma non è il caso di Gesù, perché il trasporto previo qui c’è stato. E se c’era il trasporto previo, il mos prevedeva per l’appunto che ad essere trasportato fosse il braccio orizzontale della croce, non quello verticale, quindi la ricostruzione dei TdG è impossibile ( o meglio, mai attestata). Non c’è una sola fonte, e quando dico nessuna intendo nessuna, da cui si possa dedurre che la parte trasportata previamente fosse il palo verticale. Come già detto le fonti sullo stauros previamente traspostato sono o ambigue, e dunque inutili, o specificano che parlano del patibulum orizzontale.
Quei TdG autori del libro, pur di dar contro agli apostati, sono riusciti de facto ad andare contro i Vangeli. Perché anche un cieco vedrebbe che la frase di Plauto “che porti il patibulum per la città, poi sia appeso alla croce!”, è la stessa tipologia di pena capitata a Cristo, il quale trasportò prima il patibulum, poi fu appeso alla croce. Separando invece il patibulum plautino dalla successiva edificazione della croce, perdono la possibilità di suffragare l’idea che il legno trasportato dal condannato fosse lo stesso utilizzato per poi edificare la croce. Ma così facendo vanno parzialmente contro anche all’idea della WTS, essa infatti crede che il legno trasportato servì per edificare lo stauros finale, solo che la WTS crede che il legno trasportato e poi utilizzato per edificare lo stauros fosse il legno verticale.
Sicché la ricostruzione dei geovisti che pubblicano con la Aracne non dà soddisfazione né alla WTS né agli apostati. Dà torto alla WTS, perché prova a distruggere le fonti che dicono che il legno trasportato, poi era quello su cui si veniva appesi, e dà torto agli apostati, perché dice che il patibulum veniva abbandonato sul luogo del supplizio, e poi si veniva affissi ad un palo semplice. Non è però questo che i TdG fedeli alla WTS immaginano: essi immaginano una cosa a metà, cioè il trasporto del palo verticale, il suo ficcamento nel terreno, e poi il venir inchiodati su di esso. Ma, purtroppo per loro, questa particolare ipotesi ricostruttiva non c’è in NESSUNA fonte antica.
Ad maiora
P.S. Che fine ha fatto Luciano di Samosata nel libro dei geovisti?
P.P.S. Domani vi scrivo qualche altra perla sul capitolo della crocifissione. Ora ho sonno.