Libro La Bibbia prima del dogma

Per discutere di temi ed argomenti di vario genere.

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Achille
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Quixote ha scritto:
Io non ho voluto calcare questo punto, e l’ho messa sull’ironia. Ma il fatto è che uno studioso serio, non omette di citare le fonti avverse, fossero anche del suo peggior nemico. Ora mi viene il dubbio che abbiano citato un mio scritto, che in fin dei conti nell’economia del mio sito, che parla di tutt’altro, non è che un passatempo di pochi giorni, a tutt’altro fine che quello di offrire una documentazione appropriata. Quasi mi vien da pensare che con questa operazione essi vogliano dire; «Ecco! Vedete? Sono ben inconsistenti i nostri oppositori!». Vero è che mi hanno menzionato per il buon numero di fonti da me riportate, ma esse sono ben misere rispetto allo studio di Leolaya.
Lo studio di Leolaya:

I Testimoni di Geova e la crocifissione

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Uno studio molto ampio ed esauriente in formato pdf (67 pagine, 5,48 MB).
E' opera di una studiosa americana ed è stato tradotto in italiano, corredandolo con un ampio apparato di note per spiegare i punti più difficili, e con l'aggiunta di ulteriori fonti patristiche.
(Cliccare sull'immagine per scaricarlo).
Del resto l’ingenuità e il candore del dott. Frattini, cui devo riconoscere l’impegno profuso e la buona volontà, non si rivela tanto dal citare dalla rete, come ho ironizzato; lo fanno ormai tutti, salvo nei lavori di stretta filologia formale (cui, ahimè, io sono condannato :-). Ma si guardano come dalla peste dal dirlo, a meno che non vogliano farsi deridere da tutta la comunità accademica. Il segreto è farlo bene, altrimenti riveli la tua incompetenza. Ma dichiararlo addirittura, è un mezzo suicidio. :risata:
Piuttosto, Eva Cantarella è un’illustre studiosa di fama internazionale, figlia dell’insigne grecista Raffaele Cantarella, del quale possiedo i due volumi di storia della letteratura greca classica ed ellenistica. Dal suo libro il dott. Frattini cita, ma da altra edizione, le pagine che hai riportato in cui la Cantarella non si fa nessuno scrupolo di riportare le testimonianze di Plauto e Artemidoro, cui io ho alluso nel mio post precedente, perché meglio di me sa che l’assurda contrapposizione di fonti storiche e non storiche operata dal dott. Frattini non ha alcun senso. Quello che invece appare strano è che il dott. Frattini, dato che ha letto il libro della Cantarella, abbia omesso di parlare dell’iscrizione di Pozzuoli, che se ben ricordo Poly conosce bene, perché ne ha scritto da qualche parte. Come la Cantarella scrive, sono «le uniche regole giuridiche di cui siamo a conoscenza», ma in quanto tali vanno decisamente contro la tesi di un insussistente mos Romanorum. Per cui anche qui mi viene il dubbio che il dott. Frattini sia stato “disonesto”, e abbia scientemente evitato di citare una fonte che lo contraddiceva.
Nel sito Infotdgeova si trova una pagina sull'iscrizione di Pozzuoli, a questo indirizzo:

http://www.infotdgeova.it/dottrine/pozzuoli.php" onclick="window.open(this.href);return false;

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Beg your pardon, forse mi sono confuso; io non parlavo del graffito, ma dell’iscrizione pubblicata nel 1967 di cui la Cantarella parla a p. 192 s. Se anch’essa si trovi a Pozzuoli, non lo ricordo, vi sono risalito dal titolo del paragrafo a p. 191.

PS – Qualcuno, usando il mio nome, ha riportato pari pari il mio post-fiume, usando il mio nick, su un noto forum di TdG, cui io stesso sono iscritto (ma con nick Quixote68). Dichiaro pubblicamente che io non ho nulla a che vedere con questa strana e discutibile operazione. Il mio nome vero è pubblico, e se voglio servirmene, lo faccio senza dover nascondere nulla, e soprattutto senza violare e le regole di questo forum, che vietano discussioni parallele, e le regole del loro forum. Per il momento ne ho informato, in privato, uno dei loro moderatori, attendo la sua risposta.
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Quixote ha scritto:
...forse mi sono confuso; io non parlavo del graffito, ma dell’iscrizione pubblicata nel 1967 di cui la Cantarella parla a p. 192 s. Se anch’essa si trovi a Pozzuoli, non lo ricordo, vi sono risalito dal titolo del paragrafo a p. 191.
No, ho capito male io. Polymetis ha parlato di questa iscrizione da qualche parte? Esistono delle riproduzioni fotografiche o la trascrizione del suo contenuto?

Questa è la parte in cui la Cantarella menziona questa iscrizione:

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La nota 99:

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Per Achille
Uno studio molto ampio ed esauriente in formato pdf (67 pagine, 5,48 MB).
E' opera di una studiosa americana ed è stato tradotto in italiano, corredandolo con un ampio apparato di note per spiegare i punti più difficili, e con l'aggiunta di ulteriori fonti patristiche.
Lo studio di Leolaia valeva proprio la pena di essere tradotto. Avendo Leolaia preso un PhD in Linguistica nel 2004, dà un contributo particolarmente interessante da quello che è il suo campo precipuo, cioè la semantica di stauros, che ovviamente uno storico della lingua tratta in maniera diversa rispetto ad un grecista o ad un biblista.
Non ho avuti dubbi sul fatto che ne andasse patrocinata una traduzione perché il testo riesce ad essere divulgativo e al contempo molto documentato ad un medesimo tempo.

Per Quixote
Quasi mi vien da pensare che con questa operazione essi vogliano dire; «Ecco! Vedete? Sono ben inconsistenti i nostri oppositori!». Vero è che mi hanno menzionato per il buon numero di fonti da me riportate, ma esse sono ben misere rispetto allo studio di Leolaya.
Non l'hanno citato, suppongo, perché è impossibile da citare. Leolaia non s'era firmata, in quell'articolo almeno, col suo nome, e dunque, se gli autori del libro volevano darsi un'apparenza di scientificità, non potevano certo mettersi a discutere contributi pseudonimi nel loro libro. Naturalmente, presumo l'abbiano letto, e dunque avranno tenuto in considerazione le fonti che Leolaia cita (e che io ho quasi raddoppiato, dichiarando ovviamente in nota le aggiunte rispetto all'originale).
Se noi abbiamo pubblicato il testo di Leolaia è perché, ovviamente, un forum ha regole diverse rispetto alle pubblicazioni scientifiche, altrimenti non avremmo mai alcun contraddittorio con nessun Testimone di Geova, visto che solo quasi tutti degli anonimi che non si firmano.
Comunque ribadisco che il testo di Leolaia è una lettura valida per chiunque, e che l'ho pubblicato perché io, facendo ricerca universitaria io stesso, ho riconosciuto nella sua prosa i caratteri della trattazione tipici di una collega che voglia fare un po' di divulgazione ad usum populi.
Naturalmente il mio o il tuo giudizio, caro Quixote, visto che frequentiamo letteratura scientifica, deve servire anche ad altri che, non conoscendo il mondo accademico, non hanno possibilità di distinguere la spazzatura dalla letteratura seria, ed è per questo che sono felice di vederti concorde con me nell'elogio del testo Leolaia.
Tradurre il testo di Leolaia è stato, per così dire, anche abbastanza inutile, dal punto di vista del progresso della conoscenza scientifica, infatti la nostra autrice non fa che ribadire quello che tutto il mondo accademico già pensa ed ha consolidato con ricerche decennali. Per questo motivo la sua personalità singola è irrilevante, visto che ella è banalmente la propugnatrice di quanto pensa il consensus omnium bonorum. Il discorso della pseudonimia è infatti, in questo caso, del tutto superfluo. Non serve una laurea in chimica, ne chiederemmo delle certificazioni, a chi ci dicesse che l'acqua è composto da due atomi di idrogeno e da uno di ossigeno. Chiunque anzi può dirlo, anche se ha frequentato solo le elementari, perché non fa che ripetere quanto tutto il mondo accademico pensa, e dunque quelle idee non sono due, ma quelle delle enciclopedie. Quello che pensa Leolaia, similmente, non è suo, ma è quello che si troverebbe su qualsiasi enciclopedie di antichità classiche, che sia stampata dell'editoria oxoniense, a Cambridge, ad Harvard, alla Sorbona, o dove preferite.
Sono invece le affermazioni straordinarie, cioè quelle fuori dal consensus accademico, che esigono, prima di essere prese in considerazione, che ci si informi delle qualifiche di chi le propugna. Quando poi si scopre la sproporzione tra l'enormità delle assurdità proferite, e la preparazione di chi sostiene queste teorie eterodosse, è naturale fare due più due, e dedurre che se il mondo accademico pensa in tutta la sua concorde erudizione qualcosa, mentre guarda caso gli unici eretici sono gente senza formazione antichistica, che per l'appunto neppure saprebbero leggere 10 righe di Plutarco, questa difformità di idee fra costoro e il mondo universitario è tutta da addebitarsi al dilettantismo di questi outsiders eterodossi.
Chi conosca la vera erudizione che sta dietro alle pubblicazioni scientifiche, coglie immediatamente con un solo sguardo la differenza, ma non c'è modo di farla cogliere a chi sia esterno al mondo accademico. La vita cioè non è giusta, ed è naturale che chi ha più studiato, abbia un occhio allenato a distinguere ciò che per il profano è una selva indistinta, nella quale può orientarsi solo in base alle proprie simpatie confessionali.
Sicché, possiamo con fiducia pubblicare e guardare come autorevoli alle parole di un utente anonimo del nostro forum, che discuta partendo dal presupposto darwiniano che l'uomo s'è evoluto. Non ha bisogno costui di essere biologo per affermare quello che dice, perché le sue idee non sono sue, ma di tutto il mondo accademico. Riso e scherno invece quando scopriamo che dei dilettanti da nulla, senza alcuna formazione scientifica in biologia, pretendono d'aver capito qualcosa e di poter dimostrare che l'evoluzione sarebbe un mito. In quel caso, esigere con ilarità che essi mostrino quali titoli abbiano per affermare con tanta sicumera che l'intera comunità scientifica si sbaglia, è doveroso.

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Achille Lorenzi ha scritto:Quixote ha scritto:
...forse mi sono confuso; io non parlavo del graffito, ma dell’iscrizione pubblicata nel 1967 di cui la Cantarella parla a p. 192 s. Se anch’essa si trovi a Pozzuoli, non lo ricordo, vi sono risalito dal titolo del paragrafo a p. 191.
No, ho capito male io. Polymetis ha parlato di questa iscrizione da qualche parte? Esistono delle riproduzioni fotografiche o la trascrizione del suo contenuto?
A pagina 57 del pdf di Leolaia da te già menzionato se ne parla:
http://www.infotdgeova.it/downloads/croce.pdf" onclick="window.open(this.href);return false;

Quella parte, come specificato in nota, non è di Leolaia, ma l'ho scritta io.

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polymetis ha scritto:A pagina 57 del pdf di Leolaia da te già menzionato se ne parla:
http://www.infotdgeova.it/downloads/croce.pdf" onclick="window.open(this.href);return false;
Sì, ma lì si parla del graffito del Palatino.
La Cantarella parla di un'iscrizione, pubblicata nel 1967, che contiene alcune regole «sui possibili modi di mettere in croce gli schiavi delinquenti».

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Guarda meglio. Si parla di quell'iscrizione. C'è sia il testo latino che la traduzione.
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polymetis ha scritto:
Poly, ti ho scritto in privato da alcuni giorni, ma non ho ricevuto risposta. Non vorrei che la tua casella fosse piena. Se mai scrivi all’indirizzo del mio sito.
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Messaggio da Mario70 »

È un iscrizione trovata a Pozzuoli "risalente a prima dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., riporta la legge della città a proposito delle procedure che devono utilizzare gli specialisti della morte, gli impresari delle “pompe funebri” in primis. C’è anche un brano molto interessante sulla crocifissione (linee 8-10), perché dà una testimonianza diciamo pure "marmorea" della procedura di crocifissione già descritta da una miriade di fonti letterarie, cioè il fatto che il condannato a morte doveva trasportare il braccio orizzontale della propria croce, chiamato patibulum, e in seguito, attaccato a quello, venir issato sulla croce. Ecco il testo:

“Qui supplic(ium) de ser (uo) seruaue priuatim sumer(e) uolet uti is qui sumi uolet ita supplic(ium) sumet : si in cruc(em) | patibul(ulatum) agere uolet, redempt(or) asser(es) uincul(a) restes uerberatorib(us) et uerberator(es) praeber(e) debeto et | quisq(uis) supplic(ium) sumet pro oper(is) sing(ulis) quae patibul(um) ferunt uerberatorib(us)q(ue) item carnif(ici) HS IIII d(are) d(ebeto).”98

Traduzione: “Se qualcuno vuole mettere al supplizio uno schiavo o una schiava a titolo privato, l’impresario lo metterà al supplizio secondo le modalità desiderate da colui che comanda il supplizio. Se comanda di condurlo alla croce facendogli portare una barra (patibulum), l’aggiudicatario dovrò fornire i pali, i vincoli, corde per frustarlo e i fustigatori, e, chicchessia colui che metterà al supplizio dovrà versare quattro sesterzi per gli operai che portano la barra, per i fustigatori, per il boia.” In sintesi alcuni operari devono portare il patibulum al condannato, alcuni devono fustigarlo, e infine si nomina un carnefice, forse colui che issa sul palo. L’impresario di pompe funebri deve fornire i vincoli per legare il furcifer al patibulum, le corde per frustarlo, e i fustigatori; a colui che ha assoldato “l’agenzia” spetta di pagare 4 sesterzi a ciascun operaio. Nulla di nuovo ovviamente. Il termine patibulum viene infatti dal verbo “pateo” (essere aperto), è dunque un oggetto che serve a stendere, un “estensore"99. Nel nostro contesto era la barra orizzontale cui si legava il condannato, per impedirgli di difendersi dai colpi delle fruste, mentre lo si conduceva in processione fino al luogo dove avrebbe dovuto essere crocifisso"

Negare oggi la prassi romana della crocifissione con tutte le scoperte archeologiche che abbiamo, vuol dire avere qualcosa da nascondere, siamo alla paranoia più totale, cosa abbia di scientifico un lavoro che nega questo fatto, lo vorrei davvero capire.
"La cosa più triste è che molto spesso chi viene ingannato, o illuso, tende a rimanere strettamente ancorato a quello in cui crede nonostante le evidenze indichino chiaramente che la realtà è diversa. Forse è talmente affezionato alle sue credenze che preferisce chiudersi gli occhi e tapparsi le orecchie di fronte a qualunque cosa possa farle vacillare."
(Torre di Guardia 1/9/2010 p 10)
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Messaggio da Achille »

polymetis ha scritto:Guarda meglio. Si parla di quell'iscrizione. C'è sia il testo latino che la traduzione.
Hai ragione. Mi ero soffermato all'inizio della p. 57, mentre dopo si parla anche di questa iscirizone.
Copio/incollo dalle pagine 57 e 58:

...
Abbiamo anche delle testimonianze epigrafiche della pratica così sinteticamente descritta dal dizionario, si tratta della LEX DE MUNERE PUBLICO LIBITINARIO, pubblicata per la prima volta da L. Bove, in Rend. Acc. Arch. Napoli, 41, 1967, pp. 207 ss.
Si tratta di una fonte ben nota agli antichisti grazie alla trattazione che ne fece Eva Cantarella nel suo saggio sui supplizi capitali in Greca e a Roma.
Questa tavola trovata a Pozzuoli, e dunque ovviamente risalente a prima dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., riporta la legge della città a proposito delle procedure che devono utilizzare gli specialisti della morte, gli impresari delle “pompe funebri” in primis.
C’è anche un brano molto interessante sulla crocifissione (linee 8-10), perché dà una testimonianza diciamo pure "marmorea" della procedura di crocifissione già descritta da una miriade di fonti letterarie, cioè il fatto che il condannato a morte doveva trasportare il braccio orizzontale della propria croce, chiamato patibulum, e in seguito, attaccato a quello, venir issato sulla croce. Ecco il testo:

“Qui supplic(ium) de ser (uo) seruaue priuatim sumer(e) uolet uti is qui sumi uolet ita supplic(ium) sumet : si in cruc(em) | patibul(ulatum) agere uolet, redempt(or) asser(es) uincul(a) restes uerberatorib(us) et uerberator(es) praeber(e) debeto et | quisq(uis) supplic(ium) sumet pro oper(is) sing(ulis) quae patibul(um) ferunt uerberatorib(us)q(ue) item carnif(ici) HS IIII d(are) d(ebeto).”98

Traduzione:

“Se qualcuno vuole mettere al supplizio uno schiavo o una schiava a titolo privato, l’impresario lo metterà al supplizio secondo le modalità desiderate da colui che comanda il supplizio. Se comanda di condurlo alla croce facendogli portare una barra (patibulum), l’aggiudicatario dovrò fornire i pali, i vincoli, corde per frustarlo e i fustigatori, e, chicchessia colui che metterà al supplizio dovrà versare quattro sesterzi per gli operai che portano la barra, per i fustigatori, per il boia.”

In sintesi alcuni operari devono portare il patibulum al condannato, alcuni devono fustigarlo, e infine si nomina un carnefice, forse colui che issa sul palo. L’impresario di pompe funebri deve fornire i vincoli per legare il furcifer al patibulum, le corde per frustarlo, e i fustigatori; a colui che ha assoldato “l’agenzia” spetta di pagare 4 sesterzi a ciascun operaio.

Nulla di nuovo ovviamente. Il termine patibulum viene infatti dal verbo “pateo” (essere aperto), è dunque un oggetto che serve a stendere, un “estensore"99. Nel nostro contesto era la barra orizzontale cui si legava il condannato, per impedirgli di difendersi dai colpi delle fruste, mentre lo si conduceva in processione fino al luogo dove avrebbe dovuto essere crocifisso.

Note:
98 Per la trascrizione mi rifaccio alla nuova versione pubblicata e commentata a seguito del convegno internazionale di epigrafia sull’argomento che si può trovare in J. Scheid, Libitina e dintorni, Roma, 2004, Quasar, pp.39-54; 149-170, con le correzioni di J. Bodel al testo di L. Bove
99 Jean Christian Dumont, Le supplice de la croix, in La croce: iconografia e interpretazione, (secoli 1.-inizio 16.) : atti del convegno internazionale di studi, (Napoli, 6-11 dicembre 1999), Napoli, 2007, Elio de Rosa, p. 90.
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Messaggio da Achille »

Polymetis ne aveva parlato anche nella seguente discussione, dove aveva riportato anche altre testimonianze:

https://forum.infotdgeova.it/viewtopic.php?f=21&t=2873" onclick="window.open(this.href);return false;
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Quixote ha scritto:Piuttosto, Eva Cantarella è un’illustre studiosa di fama internazionale, figlia dell’insigne grecista Raffaele Cantarella, del quale possiedo i due volumi di storia della letteratura greca classica ed ellenistica. Dal suo libro il dott. Frattini cita, ma da altra edizione, le pagine che hai riportato in cui la Cantarella non si fa nessuno scrupolo di riportare le testimonianze di Plauto e Artemidoro, cui io ho alluso nel mio post precedente, perché meglio di me sa che l’assurda contrapposizione di fonti storiche e non storiche operata dal dott. Frattini non ha alcun senso. Quello che invece appare strano è che il dott. Frattini, dato che ha letto il libro della Cantarella, abbia omesso di parlare dell’iscrizione di Pozzuoli, che se ben ricordo Poly conosce bene, perché ne ha scritto da qualche parte. Come la Cantarella scrive, sono «le uniche regole giuridiche di cui siamo a conoscenza», ma in quanto tali vanno decisamente contro la tesi di un insussistente mos Romanorum. Per cui anche qui mi viene il dubbio che il dott. Frattini sia stato “disonesto”, e abbia scientemente evitato di citare una fonte che lo contraddiceva.
Non è stata citata nemmeno un'altra fonte, anch'essa molto chiara in merito alla prassi di far trasportare il patibulum dai condannati fino al luogo del supplizio:
«Un romano abbastanza conosciuto aveva consegnato un suo schiavo ad altri schiavi perché lo conducessero a morte e, affinché la punizione fosse clamorosa, ordinò che lo trascinassero, frustandolo, attraverso il foro e per qualsiasi altro luogo della città che fosse molto frequentato, precedendo la processione che i romani facevano in onore del dio in quell’occasione. Gli uomini che conducevano lo schiavo al supplizio, dopo avergli steso le braccia e averle legate ad una trave (τὰς χεῖρας ἀποτείναντες ἀμφοτέρας καὶ ξύλῳ προσδῆσαντες) che, lungo il petto e le spalle, arrivata fino ai polsi, lo seguivano percuotendo con la frusta il suo corpo nudo.» (Dionisio di Alicarnasso, Storia di Roma arcaica, VII, 69, 1-2).
Passo riportato da Polymetis qui: https://forum.infotdgeova.it/viewtopic.php?f=21&t=2873" onclick="window.open(this.href);return false;

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Messaggio da cercaverità »

Interessante il racconto di Dionisio di Alicarnasso, poi è vissuto tra il 60 AC e il 7 DC . Ho trovato in rete un altro libro di Elena Cantarella http://books.google.it/books?id=31eD5bB ... ce&f=false" onclick="window.open(this.href);return false; Nega quello che avevo sentito sui cartaginesi che avevano fatto conoscere ai romani la crocifissione. Ci sono altri racconti sulle crocifissioni romane, pure Giulio Cesare! Solo una domanda: sapete se il De Bello Hispanico era scritto in latino o in greco? Lo chiedo perché so già dove i TDG andrebbero a parare per negare che i romani usavano già ai tempi di Gesù crocifiggere la gente. La pagina si apre su Attilio Regolo, ma se andate alla pagina prima è lì che comincia il pezzo sulla croce.
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Dt 18:21,22 Se tu pensi: Come riconosceremo la parola che il Signore non ha detta? Quando il profeta parlerà in nome del Signore e la cosa non accadrà e non si realizzerà, quella parola non l'ha detta il Signore; l'ha detta il profeta per presunzione: di lui non devi aver paura.

Mai discutere con un TDG, ti trascina al suo livello e ti frega con l'esperienza : Wilde
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Messaggio da Quixote »

cercaverità ha scritto:Interessante il racconto di Dionisio di Alicarnasso, poi è vissuto tra il 60 AC e il 7 DC . Ho trovato in rete un altro libro di Elena Cantarella http://books.google.it/books?id=31eD5bB ... ce&f=false" onclick="window.open(this.href);return false; Nega quello che avevo sentito sui cartaginesi che avevano fatto conoscere ai romani la crocifissione. Ci sono altri racconti sulle crocifissioni romane, pure Giulio Cesare! Solo una domanda: sapete se il De Bello Hispanico era scritto in latino o in greco? Lo chiedo perché so già dove i TDG andrebbero a parare per negare che i romani usavano già ai tempi di Gesù crocifiggere la gente. La pagina si apre su Attilio Regolo, ma se andate alla pagina prima è lì che comincia il pezzo sulla croce.
Io lo conosco come De Bello Hispaniensi (o Bellum Hispaniense). È una delle tre opere che formano il cosiddetto Corpus Cesarianum, che completa le due opere scritte da Cesare stesso, De bello Gallico e De bello civili, mentre le altre tre sono scritte dai suoi luogotenenti. In particolare il Bellum Hispaniense si segnala perché scritto con un latino molto colloquiale e vicino allo stile parlato. Il passo preciso è B. Hisp. 20, 1: Servi sunt in crucem sublati = “Gli schiavi furono posti in croce”. Nient’altro, salvo che subito prima si accenna al numero degli schiavi, appunto tre.
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Sorry, ho scritto in fretta. Dovevo dire B. Hisp. 20, 5, che è comunque lontano solo poche righe.
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Evidentemente dormivo già quando ho scritto. Corpus *Cesarianum? mi prenderei a calci. La grafia giusta è corpus Caesarianum… e sí che il latino di solito io lo leggo con la pronuncia classica (“kaesar”) e non con quella della Chiesa (“cesar” con c palatale, come in ‘cielo’).
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E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.
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eros&thanatos
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Messaggio da eros&thanatos »

Quixote ha scritto:Evidentemente dormivo già quando ho scritto. Corpus *Cesarianum? mi prenderei a calci. La grafia giusta è corpus Caesarianum… e sí che il latino di solito io lo leggo con la pronuncia classica (“kaesar”) e non con quella della Chiesa (“cesar” con c palatale, come in ‘cielo’).
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Messaggio da teodoro studita »

Nel frattempo mi sono letto il libro. Noioso e prevedibile, ma almeno è scritto in italiano, il che è comunque un passo avanti rispetto ai vari Azzurra7.
Ho passato gli ultimi giorni a correggere una tesi e quindi non ho ancora avuto modo di scrivere una recensione, ma ho abbastanza appunti presi durante la lettura per farne una, sempre che ci sia qualcuno disposto a pubblicarla. Non mi va di chiedere favori, quindi se la prendono bene, altrimenti amen. Vediamo.
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Messaggio da Achille »

teodoro studita ha scritto:Nel frattempo mi sono letto il libro. Noioso e prevedibile, ma almeno è scritto in italiano, il che è comunque un passo avanti rispetto ai vari Azzurra7.
Ho passato gli ultimi giorni a correggere una tesi e quindi non ho ancora avuto modo di scrivere una recensione, ma ho abbastanza appunti presi durante la lettura per farne una, sempre che ci sia qualcuno disposto a pubblicarla. Non mi va di chiedere favori, quindi se la prendono bene, altrimenti amen. Vediamo.
Altrimenti la potresti pubblicare qui.
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Messaggio da polymetis »

Visto che non si scrivono recensioni di Topolino, non capisco perché si dovrebbe recensire questo libro.
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Alla base delle scelte fondamentali del Nolano - a Londra come a Roma -, c'era il convincimento di appartenere alla "casa" dei filosofi, e che ad essa bisogna essere sempre fedeli, anche nei rapporti con i potenti della Chiesa e dello Stato, perché la casa della filosofia è la casa della verità: in un modo intelligente e anche astuto, certo, ma sempre fedeli. (Michele Ciliberto)
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Messaggio da polymetis »

Allora, ho letto questa sera stessa il capitolo sulla crocifissione, e non ci ho trovato nulla di nuovo. Un condensato di tendenziosità e assenza di qualsiasi approccio storicamente sensato al problema. Ne faccio una breve recensione. Qui siamo in rete, e questo libro dovrebbe essere confinato a chiacchiere informali da rete, continuo a pensare che l’idea di Teo di recensirlo in una rivista scientifica sia una follia.
Veniamo al dunque.
Per prima cosa l’autore si getta in una distinzione che ai fini di una ricerca sulla crocifissione non dovrebbe avere nessun peso. Distingue infatti tra fonti che narrano eventi in cui l’autore sia stato testimone oculare dei fatti che riporta, in secondo luogo fonti in cui l’autore descrive fatti realmente accaduti, ma di cui non è stato testimone oculare, e in terzo luogo fonti che descrivono fatti immaginari (ad esempio, inventare la storia di due personaggi in un romanzo).
Tutto ciò serve unicamente a declassare di importanza le fonti che narrano storie inventate. Ma non si vede che cosa c’entri il fatto che l’autore descrive la croce in una cornice inventata col fatto che egli sia o meno in grado di dirci com’era fatta una croce.
Supponiamo che tra 3000 anni qualcuno volesse sapere come si viveva a Venezia nel 2013, e che tra le poche fonti superstiti ci sia un romanzo d’amore scritto da sottoscritto, che lavora all’università di Venezia. Costoro, gli archeologi del 5013 d.C., vogliono sapere se nel 2013 il “Ponte dei sospiri” fosse ancora in piedi, e che forma avesse. Orbene, se io avessi ambientato questo romanzo d’amore nel 2013, ed essi leggessero in esso che i due amanti si baciarono guardando quel ponte, di cui io magari descrivo pure la forma, gli archeologi che vivranno tra 3000 anni potranno dedurre ragionevolmente che il Ponte dei Sospiri nel 2013 era ancora in piedi, e che avesse la forma che un veneziano del 2013 descrive. Questo perché, indipendentemente dal fatto che io inventi la trama di un romanzo, abitando a Venezia so perfettamente com’è fatta. Allo stesso modo non ce ne frega nulla se le commedie di Plauto descrivono fatti inventati perché sono commedie, quello che conta è che Plauto era uno scrittore latino del III sec a.C. e dunque sapeva perfettamente com’era fatta una croce, ed infatti la infila nei suoi scritti.
Un discorso simile va fatto per testi ancor più immaginari, cioè la descrizione di visioni o allegorie, dalla quale si può trarre l’idea che la forma dello stauros fosse una croce. Non ce ne frega nulla, neppure in questo caso, che si tratti di allegorie e simbolismi. Quello che conta è che se questi autori cercano simbolismi cruciformi, è perché avevano previamente in mente l’idea che lo stauros fosse una croce. Nessuno di costoro cioè, sarebbe andato a scovare questi simboli, dicendo che ad esempio la croce assomiglia ad un uomo con le braccia divaricate, se prima non avessero avuto in mente la realtà concreta di una croce. Quindi vediamo di non ragionare al contrario. E’ perché i Padri della Chiesa sapevano che le croci hanno quella forma, che essi vanno disperatamente nella natura alla ricerca di oggetti cruciformi. Se prima non avessero avuto un’idea di com’è fatta una croce, banalmente non avrebbero saputo cosa cercare. E se avessero pensato che la croce fosse un triangolo, avrebbero cercato altri simboli, paragonandola magari ad un delta maiuscolo (che si scrive Δ), anziché ad una T, come fanno.
Questo ho trovato di assai irritante nel modo in cui l’autore tratta i testi di personaggi come Ireneo, Tertulliano, o lo pseudo-Barnaba. In primo luogo dice che non si tratta di testimoni oculari, e poi tenta di squalificare i loro testi dicendo che si tratta di testi simbolici che descrivono allegorie. Ebbene, e che ce ne frega che siano allegorie? Sono allegorie costruite per l’appunto sul fatto che la forma dello stauros era una croce, esse presuppongono la forma cruciforme e si basano su quella. Era idea cioè di questi Padri che gli stauroi fossero a forma di croce. Il che forse non avrà rilevanza per Arduini&Co., ma queste persone vivevano sotto l’impero romano, in un’epoca dove la crocifissione era ancora praticata, quindi ne sapevano un tantino più dei TdG e dei loro apologeti su come fossero fatte queste croci.
Non c’è nulla di strano, ed anzi è un’operazione ovvia, che s’utilizzino testi che trattano di allegorie o simboli, per ricostruire dei dati storici, ed infatti è ciò che accade comunemente. Viene da chiedersi come faccia l’autore a stupirsene.
Vi faccio un esempio riportandolo alla nostra epoca, in modo che possiate capire come gli storici odierni lavorano sui testi antichi. In questi giorni sto leggendo un libro di leggende scritte a fine Ottocento da Salgari, che si intitola “Le novelle marinaresche di mastro Catrame”. Il libro mette in scena un marinaio che racconta lugubri storie per spaventare i suoi compagni di bordo.
Supponiamo che sempre gli storici del tremila d.C., abbiano perso la conoscenza di come i marinai immaginavano Nettuno, il re del mare, e precisamente come immaginavano il suo scettro, che come sapete è il tridente.
Ebbene, in una delle novelle di mastro Catrame si racconta di come i marinai avessero l’usanza, credendo che il re del mare esistesse, di fargli un tributo ogniqualvolta una nave varcava la linea dell’Equatore. Si narra altresì che un capitano fu punito da Nettuno in persona per aver disatteso questa consuetudine, in quanto non credeva all’esistenza del dio marino. Nettuno dunque punì l’equipaggio blasfemo e miscredente mandando una tempesta che affondò la nave.
Mastro Catrame, per convincere i suoi amici che lo ascoltano che quella non era una tempesta casuale, ma era stata davvero mandata dal dio del mare, scrive che la nuvola che portava la tempesta aveva la forma dello scettro di Nettuno, in quanto aveva tre punte.
Che cosa possiamo dedurre? Che ovviamente, se Mastro Catrame vedeva in una nuvola a tre punte il segno che quello fosse lo scettro di Nettuno, allora lo scettro di Nettuno aveva tre punte. Infatti è un tridente.
Come vedete si tratta di un racconto di fantasia, un marinaio che riconosce il tridente di Nettuno in una nuvola che porta una tempesta. Eppure, ci dà l’informazione che all’epoca si credeva che lo scettro di Nettuno fosse proprio un tridente, cioè qualcosa a tre punte.
I riferimenti che possiamo trarre dalla letteratura antica sulla croce sono sovente di questo genere.
Artemidoro ad esempio dice che chi sogna una nave a vele spiegate sarà crocifisso, perché, ci dice il nostro autore, l’albero di una nave ha la forma di una croce.
Immagine

Non si vede che cosa possa c’entrare il fatto che qui Artemidoro stia dando delle istruzioni per interpretare dei sogni, e non descriva eventi reali. Ciò che conta è che se va a dire a qualcuno che chi sogna una nave a vele spiegate, in realtà sta sognando una croce, è perché evidentemente nel suo cervello le croci avevano quella forma, altrimenti il collegamento non gli sarebbe venuto in mente. Se avesse pensato che gli stauroi sono a forma di palo, forse avrebbe scritto che chi sogna una torre verrà crocifisso. Invece associa allo stauros immancabilmente immagini cruciformi.

Ma veniamo ad un altro punto. L’autore vuole sostenere che non esiste un mos romanorum della crocifissione, cioè che sia falso che il trasporto del patibulum vedesse poi il medesimo patibulum issato sulla croce.
A questo proposito ipotizza che la pena del trasporto del patibulm fosse in origine una pena diversa dalla crocifissione (il che tra l’altro può essere vero per le epoche più arcaiche), e che, se anche delle descrizioni ci parlano prima del trasporto del patibulum e poi della crocifissione, ciò non ci autorizza a dire che il patibulum trasportato fino al luogo dell’esecuzione venisse poi issato sulla croce.
Dunque, un verso come quello plautino:
Patibulum ferat per urbem, deinde adfigatur cruci.
“Che porti attraverso la città il patibulum, e poi sia appeso ad una croce” (Carbonaria, fr. 2)

verrebbe interpretato nel senso che il condannato trasporta il patibulum per la città, poi, giunto al luogo dell’esecuzione, lascia a terra il patibulum e viene issato senza di esso sulla crux (che ovviamente per i Testimoni autori del libro sarebbe un palo).

Funzionava così la faccenda? No. La lettura da dare è quella ovvia che danno tutti, senza le paranoie interpretative dei Testimoni di Geova. Artemidoro infatti dice infatti:
“l’uomo che deve essere inchiodato alla croce(stauros) prima se la porta (bastazei)” (Oneirocritica, 2.56)
Usando de facto lo stesso verbo e lo stesso sostantivo dei Vengeli:
“Gesù fu portato via, e portando la croce su di sé (bastazon auto(i) ton stauron), uscì verso il cosiddetto Luogo del Teschio”. (Gv 19,16)
Il fatto che Artemidoro ci dica che “chi è appeso allo stauros, prima se lo porta”, ci dice che lo stauros che si portava sulle spalle non veniva affatto deposto, ma era lo stesso sul quale si veniva appesi.
Si noti che Artemidoro dà una frase lapidaria e generalissima al presente, che testimonia una consuetudine, come quando noi diciamo “chi muore, non torna più indietro”, o frasi simili. Artemidoro similmente dice lapidario, testimoniando un modo di fare abitudinario: “ chi è appeso allo stauros, prima se lo porta”,
Or dunque, atteso che lo stauros cui il condannato veniva appeso, era lo stesso che si portava, qual era la forma di questo stauros?
Qui veramente con una faccia tosta notevole l’autore scrive: “Se preso alla lettera nelle sue affermazioni filosofiche, aggiungerebbe una ulteriore difficoltà, dichiarando quello che gli storici attuali attualmente considera improbabile: il trasporto della croce intera da parte del condannato. Il problema sarebbe risolvibile ammettendo che lo stauròs di Artemidro sia un singolo palo, a cui veniva inchiodato il condannato”.
E’ commovente vedere come quella testolina geovista usa la parola “filosofia”, termine che evidente accostato a qualunque cosa basta a squalificarla secondo l’autore, addestrato al verbo della Torre di Guarda. Io non so che cosa ci sia di filosofico in un testo che ti dice che se sogni l’albero maestro di una nave, allora stai sognando una croce. Né so soprattutto cosa c’entri la presunta “filosoficità” di un’affermazione con la squalifica della sua utilità storica. Ma, a prescindere da questo, è pure commovente come il nostro autore scarti l’idea che il testo vada preso alla lettera, perché, altrimenti, ciò comporterebbe che vi sarebbe il trasporto di una croce intera, e questo è considerato improbabile dagli storici.
Ma da quando i TdG, che credono che l’uomo abbia poco più di 6000 anni, e che Cristo morì su un palo, si curano di ciò che gli storici ritengono probabile? Davvero comico. E poi, chi ha mai detto che gli storici intendano il passo come il trasporto di una croce intera cui poi si veniva appesi? Gli storici pensano qualcosa di diverso, cioè che stauros fosse il nome tanto del solo patibulum (per sineddoche), quanto della croce assemblata. Sicché la frase vuol certamente dire, come c’è scritto, che allo stauros trasportato, poi si veniva appesi, però quello stauros (il patibulum) veniva issato su un palo già presente in loco.
Dunque lo stauros che si portava era il patibulum orizzontale, e sempre a quello stauros si veniva appesi, perché questo stauros era issato sulla croce.
Questa esegesi di Artemidoro, è l’unica possibile. Perché però non possiamo ipotizzare che “chi è appeso allo stauros, prima se lo porta”, si riferisca ad un singolo pezzo di legno, il palo verticale, come credono i TdG sia avvenuto per Gesù?
Ma perché Artemidoro stesso ci dice esplicitamente che la croce è fatta di legni (al plurale), e proprio nello stesso passo in cui c’è la frase incriminata:

“Venire crocifissi è buon segno per tutti i naviganti, in quanto la croce è fatta di legni (ξύλων) e di chiodi come la nave, e l’albero maestro di questa è simile ad una croce” (ἡ κατάρτιος αὐτοῦ ὁμοία ἐστὶ σταυρῷ)". (Artemidoro, Oneirocritica 2.53)
E poi Artemidoro ci parla della croce in altri passi, e ci fa capire chiaramente che aveva in mente una croce a due legni. Oneirocritica, 1.76 scrive infatti che quelli coloro che sognano di danzare saranno “crocifissi” (σταυρωθήσεται) a causa “delle loro braccia distese”(τὴν τῶν χειρῶν ἔκτασιν).

Dunque ricapitoliamo: Artemidoro ci dice, facendo un’affermazione generica “chi è appeso allo stauros, prima se lo porta”. Ma questo stauros a cui si viene appesi non è né un palo semplice (perché Artemidoro usa legni della croce al plurale, e la paragona all’albero della nave col pennone, e a gente che danza con braccia divaricate), e non è neppure una croce intera, perché sia noi che i TdG siamo d’accordo che sarebbe stata troppo pesante. Ergo lo stauros che si portava era il patibulum, e lo stauros cui si veniva appesi era il risultato dell’unione di questo legno con l’altro già piantato. Ergo qual è il modo più ovvio e giusto di leggere la frase plautina “Patibulum ferat per urbem, deinde adfigatur cruci”/“Che porti attraverso la città il patibulum, e poi sia appeso ad una croce”? Quello che abbiamo detto, e che testimonia Artemidoro, cioè “chi è appeso alla croce, prima se LA porta”. Il patibulum trasportato dallo schiavo, non veniva mollato sul posto, ma era quello a cui veniva appeso.
Tra l’altro, mi preme far notare, che l’esegeta geovista non si rende conto che la sua esegesi è impossibile perché cita la traduzione di Artemidoro delle edizioni Adelphi, la quale rende “la croce è fatta di legnO e di chiodi”. Come si vede, la resa italiana ha il singolare, ma si tratta di una traduzione distratta, perché in greco c’è un genitivo plurale. L’autore del capitolo sulla croce non se n’è accorto perché non è andato a vedersi il testo originale.
Ma sono altre le fonti che ci dicono che il legno orizzontale veniva innestato in quello verticale. Essendo decine ovviamente le fonti che parlano di un braccio trasversale della croce, qui mi limito a citarne alcune che non solo menzionano il braccio trasversale, ma parlano del fatto che esso venisse innestato:
Giustino scrive:
“Il corno unico è infatti il legno ritto la cui parte superiore si sporge in alto come un corno quando viene innestato un legno trasversale, le cui estremità vengono ad essere come corna a lato dell’unico corno” (Giustino, Dialogo con Trifone 91)

Anche Agostino, che i romani a differenza dei TdG li conosceva, vivendoci assieme, ce ne parla. Commentando Ef 3,17-18, in cui si dice “Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità, e conoscere l'amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio”, il santo di Ippona vede nelle parole l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità un’allusione alle 4 braccia della croce, e così commenta:

“In questo testo sacro ci viene mostrata la figura della croce. Cristo, che morì perché lo volle, morì pure nel modo che volle. Non senza ragione quindi scelse questo genere di morte, ma solo per apparire anche in ciò maestro della larghezza, lunghezza, altezza e
profondità del suo amore. La larghezza sta nella traversa che s'inchioda sopra la croce e simboleggia le opere buone, giacché su di essa vengono distese le mani. La lunghezza è nella parte che si vede dall'alto della croce sino a terra: ivi si sta per così dire dritti, cioè si persiste e si persevera; virtù che è attributo della longanimità. L'altezza, è nella parte della croce che, a partire dal punto dove è inchiodata la traversa, sopravanza verso l'alto, cioè verso il capo del crocifisso, poiché l'aspettativa di coloro che sperano è rivolta verso il cielo. La parte della croce che non è visibile, perché confitta nella terra non si scorge, ma da cui si eleva tutto l'insieme, significa la profondità della grazia concessa gratuitamente.” (Lettere, 140, 26)

Altra testimonianza viene da Firmico Materno, il quale ci dice, parlando di un crocifisso: “patibulo subfixus in crucem tollitur" (Firmicus Maternus, Mathesis 6.31.58)

“Inchiodato al patibulum, è fatto ascendere sulla croce”, dove apprendiamo che prima si veniva fissati al patibulum, e poi appesi a questo si veniva issati sulla croce.

A questo proposito i commenti del libro geovista sono un po’ imbarazzanti, per tutti i motivi sopra spiegati. L’autore infatti si affretta subito a spiegarci che il libro parla di astrologia. E se noi risponderemmo istintivamente “e chi se ne frega! Che cosa c’entra?”, già vediamo i suoi timorati correligionari che leggono il libro associare subito nella loro mente l’astrologia al demonio, e dunque squalificare come proveniente da Satana ogni informazione ivi contenuta. Esattamente come nel caso di Artemidoro, che parlava di sogni, anche in questo frangente non si vede che cosa c’entri la materia di cui parla Firmico, che sia astrologia o un libro di cucina. Una persona può lasciarsi sfuggire particolari utili agli storici quale che sia la materia che sta trattando. Il testo geovista è pieno di frasi settarie senza alcun senso scientifico intrise di Bible Belt, come questa perla su Firmico: ”il testo in questione è altamente filosofico, non cristiano, e chiaramente influenzato da religioni pagane”.
E’ vero che Firmico probabilmente non s’era ancora convertito al cristianesimo allorché scrisse il Matheseos libri VIII, ma non si vede la logica con cui i TdG sono giunti a questa conclusione. Perché mai infatti un testo “filosofico” dovrebbe essere per ciò stesso non cristiano, e che cosa c’entri con l’argomento della crocifissione che il libro di Firmico sarebbe, a detta degli autori, “influenzato da religioni pagane”? Questa retorica geovista, fatta per buttare fumo negli occhi e compiacere i propri correligionari, non ha proprio alcun senso accademicamente parlando, a meno che non ci vogliano dire che l’idea della croce di Cristo derivi da qualche idea pagana. Ma il libro non lo dimostra in alcun punto. Forse lo danno per scontato implicitamente gli autori, che in questo si rifanno ad una retorica pseudo-scientifica intrisa di comparativismo selvaggio ottocentesco che ogni tanto la WTS propugna nei suoi opuscoli, vedendo nella forma della croce chissà quale retaggio pagano. Ed in parte la WTS ha ragione, sebbene non alla maniera in cui crede. La croce è senz’altro pagana, infatti i romani, che erano pagani, hanno ucciso Gesù su questo strumento.
Inoltre, com’è possibile che gli autori si sognino di dire che questa fonte è del V secolo (p. 270), se esso è della prima metà del IV? Lo sappiamo dal fatto che il De errore, scritto successivo che testimonia l’avvenuta conversione dell’autore al cristianesimo, è dedicato agli imperatori Costante e Costanzo, e dunque il Matheseos libri VIII dev’essere d’un epoca ancora precedente. Forse gli autori volevano dare ad intendere che l’autore visse in un’epoca in cui l’impero romano era già crollato? Ciò è falso. Ma anche se fosse stato un autore del sesto secolo, come potrebbero pretendere costoro di saperne più di lui? Non è che, caduto l’impero, la memoria di cosa accadeva nei secoli precedenti fosse scomparsa. C’erano le biblioteche, la memoria collettiva, e perché no, pure le raffigurazioni della crocifissione su qualche parete, a mo’ di graffito, che sono giunte persino sino a noi.
Ma torniamo al nostro problema, cioè la fissazione del patibulum issato sullo stipes. Anche a livello iconografico, una delle più antiche testimonianze grafiche della crocifissione cristiana, è quella del portale di Santa Sabina a Roma, basilica paleocristiana tra le più antiche, edificata da Pietro di Illiria tra il 422 e il 432. Ebbene, cosa vediamo? Vediamo che della gente che nell’impero romano ci viveva, per raffigurare la crocifissione avesse in mente che ci fossero delle impalcature atte a sollevare il patibulum ed issarlo sulla croce:
Immagine

Perché questa gente, questi romani, avrebbero dovuto immaginarsi un’impalcatura del genere, se non per il fatto che essi sapevano che così si crocifiggeva?
Già mi immagino però l’obiezione: alcune fonti ci dicono che Costantino abolì la crocifissione, perché essendo lui cristiano, riteneva che non si dovesse più eseguire questa pratica, la cui memoria era associata al Salvatore. Quindi, le persone nate dopo la metà del IV secolo, in teoria non avrebbero potuto sapere come si crocifiggeva.
Ebbene, questa obiezione è del tutto priva di senso. Come già detto sarebbe folle credere che noi possiamo saperne più di gente che viveva nell’impero romano di come avveniva la crocifissione, anche dopo un secolo che la crocifissione fu abolita. In Italia ad esempio non impicchiamo nessuno da un bel pezzo, avendo noi abolito la pena di morte, ma questo non vuol dire che non sappiamo come si impicchi qualcuno. E questo perché banalmente siamo inseriti in una cultura che ci tramanda la memoria dell’impiccagione come pena. Abbiamo romanzi che la descrivono, sceneggiati storici che la mostrano, illustrazioni d’epoca che possiamo guardare, ecc. Similmente nell’impero romano le vestigia di quel modo di fare, che sono arrivate addirittura fino a noi (si pensi al graffito del palatino, a quello della taverna di Pozzuoli), erano ancora fresche. La loro letteratura parlava di crocifissioni, potevano ancora vederne riproduzioni, visto che noi pure le abbiamo, le biblioteche, le loro scuole, stava ancora tutto in piedi, ed in Italia il sistema scolastico continuerà a funzionare fino a VI secolo inoltrato trasmettendo la cultura imperiale.

Quello che invece manca del tutto, se vogliamo essere pignoli, è l’attestazione della procedura immaginata dalla WTS per la messa a morte di Gesù, che a questo punto non sappiamo neppure se coincida col pensiero dei TdG internettiani. Infatti, secondo i TdG internettiani, il palo che Gesù portò, è lo stesso cui venne appeso? O forse adesso credono che si trattò del trasposto di un patibulum, e dunque di un singolo legno orizzontale, ma che poi quel palo fu lasciato a terra, e Gesù fu appeso ad un altro palo singolo che stava là sul posto?
A me pare che la WTS non sposi questa tesi, ma che creda che il palo che Gesù portò, fu poi quello cui fu appeso. Se è così, dove mai ci sarebbe attestazione di una pratica simile?
Infatti, da quale testo è mai possibile ricavare che qualche condannato a morte abbia portato sulle spalle il palo verticale, che questo palo poi sia stato piantato, e ad esso il condannato sia stato poi inchiodato? Da NESSUNO. I TdG che fanno le pulci a noi per il rituale del mos romanorum descritto dagli studiosi, dovrebbero invece guardare in casa propria e dirci dove sarebbero le fonti che rendano probabile la loro versione. Infatti i testi delle fonti antiche si dividono in due categorie, quelli che ci dicono banalmente che viene trasportato uno stauros, e che sono inutili perché non ci permettono di capire se fosse il palo verticale o quello orizzontale, e poi ci sono i testi che sono specifici, ma ci permettono di capire che ad essere trasportato è il patibulum orizzontale.
Ed infatti i geovisti tentano di disinnescare questi testi, dove si parla del trasposto del legno orizzontale, e sono molti, dicendo che non è detto che quel legno orizzontale poi venisse issato sul palo. Ciò, come abbiamo visto, è falso, perché il legno orizzontale veniva poi inchiodato a quello verticale. Ma anche se non potessimo dimostrarlo, in ogni caso avremmo dei testi che parlano del trasporto di un legno orizzontale sulle spalle, e ancora non avremmo nessun testo che parla del trasporto di un palo verticale. Cercare di demolire le prove della versione altrui, non produce automaticamente prove che suffraghino la propria versione. Come ripeto abbiamo solo due tipologie di testi: o sono ambigui perché si parla solo di “stauros” trasportato, o parlano del legno orizzontale. E dunque, se dovessimo interpretare i brani equivoci sulla base di quelli chiari, quello che se ne potrebbe ricavare è che anche in quelli ambigui, come lo sono Caritone e Plutarco, si parli del trasporto di un legno orizzontale.
Come già detto dunque la pratica immaginata dalla WTS non ha alcun fondamento, le domande sono le seguenti:
1)Da quale brano ricaviamo che lo stauros trasportato era inequivocabilmente il legno verticale?
2)Da quale fonte apprendiamo che questo legno veniva piantato in loco?
3)Da quale fonte apprendiamo che questo singolo legno verticale trasportato, dopo essere stato piantato a terra, era quello cui si veniva appesi?

Quando si parla di mos romanorum della crocifissione, non si intende dire, come i TdG vogliono dare a bere, che gli storici credano che i romani appendessero la gente sempre con questo rituale. Se avevano fretta, potevano benissimo appendere una persona su un singolo palo. Quello che dicono gli storici invece è altro, e cioè che nel racconto dei vangeli si riconosce una precisa maniera di procedere, che non veniva fatta sempre, ma, qualora venisse fatta, prevedeva queste tappe, cioè il trasporto di un patibulum, che poi veniva issato su una croce.
Non vorrei essere frainteso, e non vorrei che la mia frase suonasse arrendevole. Quando dico che i romani non appendevano sempre così, non intendo dire che la ricostruzione della WTS sia possibile. Infatti, quando appendevano a dei semplici pali, i romani previamente non facevano trasportare nulla al condannato. Dunque l’affermazione degli storici è la seguente: se c’è un trasporto previo di qualcosa, allora quello è il trasporto di un patibulum orizzontale, e noi siamo all’interno del rituale della crocifissione, cioè quel patibulum veniva issato sulla croce.
Se c’era il trasporto previo, allora siamo nel rituale della crocifissione. Se non c’era, potevano appendere come gli pareva, anche direttamente ad un palo singolo. Ma non è il caso di Gesù, perché il trasporto previo qui c’è stato. E se c’era il trasporto previo, il mos prevedeva per l’appunto che ad essere trasportato fosse il braccio orizzontale della croce, non quello verticale, quindi la ricostruzione dei TdG è impossibile ( o meglio, mai attestata). Non c’è una sola fonte, e quando dico nessuna intendo nessuna, da cui si possa dedurre che la parte trasportata previamente fosse il palo verticale. Come già detto le fonti sullo stauros previamente traspostato sono o ambigue, e dunque inutili, o specificano che parlano del patibulum orizzontale.
Quei TdG autori del libro, pur di dar contro agli apostati, sono riusciti de facto ad andare contro i Vangeli. Perché anche un cieco vedrebbe che la frase di Plauto “che porti il patibulum per la città, poi sia appeso alla croce!”, è la stessa tipologia di pena capitata a Cristo, il quale trasportò prima il patibulum, poi fu appeso alla croce. Separando invece il patibulum plautino dalla successiva edificazione della croce, perdono la possibilità di suffragare l’idea che il legno trasportato dal condannato fosse lo stesso utilizzato per poi edificare la croce. Ma così facendo vanno parzialmente contro anche all’idea della WTS, essa infatti crede che il legno trasportato servì per edificare lo stauros finale, solo che la WTS crede che il legno trasportato e poi utilizzato per edificare lo stauros fosse il legno verticale.
Sicché la ricostruzione dei geovisti che pubblicano con la Aracne non dà soddisfazione né alla WTS né agli apostati. Dà torto alla WTS, perché prova a distruggere le fonti che dicono che il legno trasportato, poi era quello su cui si veniva appesi, e dà torto agli apostati, perché dice che il patibulum veniva abbandonato sul luogo del supplizio, e poi si veniva affissi ad un palo semplice. Non è però questo che i TdG fedeli alla WTS immaginano: essi immaginano una cosa a metà, cioè il trasporto del palo verticale, il suo ficcamento nel terreno, e poi il venir inchiodati su di esso. Ma, purtroppo per loro, questa particolare ipotesi ricostruttiva non c’è in NESSUNA fonte antica.

Ad maiora

P.S. Che fine ha fatto Luciano di Samosata nel libro dei geovisti?

P.P.S. Domani vi scrivo qualche altra perla sul capitolo della crocifissione. Ora ho sonno.
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polymetis ha scritto:P.P.S. Domani vi scrivo qualche altra perla sul capitolo della crocifissione. Ora ho sonno.
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polymetis ha scritto:
A questo proposito ipotizza che la pena del trasporto del patibulm fosse in origine una pena diversa dalla crocifissione (il che tra l’altro può essere vero per le epoche più arcaiche), e che, se anche delle descrizioni ci parlano prima del trasporto del patibulum e poi della crocifissione, ciò non ci autorizza a dire che il patibulum trasportato fino al luogo dell’esecuzione venisse poi issato sulla croce.
Sottintendono (o forse in altra parte affermano), una sorta di gogna pubblica prima del palo?
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Achille Lorenzi ha scritto:
polymetis ha scritto:P.P.S. Domani vi scrivo qualche altra perla sul capitolo della crocifissione. Ora ho sonno.
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Sottintendono (o forse in altra parte affermano), una sorta di gogna pubblica prima del palo?
Sì, è questo il punto.
Orbene, l'idea che il trasporto del patibulum in origine fosse una pena a parte, sebbene sia un'idea non dimostrabile, tuttavia non è qualcosa di ridicolo. Ci sono in effetti passi, che descrivono epoche antiche, in cui si parla del trasporto del patibulum, ma non della croce successiva*. Il che può significare che o la croce successiva non c'era affatto, o banalmente lo scrittore non l'ha nominata. Quello che è ovvio e certo, tuttavia, è che, indipendentemente dal fatto che in origine il trasporto del patibulum fosse o meno una pena a parte, ad un certo punto della storia romana venne a saldarsi alla pena della crocifissione. Ma si saldò non solo nel senso che il trasporto del patibulum era precedente alla croce, e che poi veniva lasciato lì a terra. Al contrario: la saldatura delle tue pene consisté nel fatto che legno che si trasportava, divenne lo stesso al quale si veniva inchiodati penzolando dalla croce. (Vedasi il post precedente per le fonti)

Ad maiora

* Il che comunque, è ancora diverso da quanto descrivono gli autori del libro. Infatti essi non si limitano a teorizzare la pena del trasporto del patibulum eseguita da sola, ma anche la pena del trasporto del patibulum come premessa all'appendimento su un palo verticale. Solo che ipotizzano, senza alcuna fonte, che il patibulum trasportato sul luogo dell'esecuzione, venisse poi lasciato là. E si salisse dunque su un singolo palo.
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Messaggio da polymetis »

Benvenuti alla seconda puntata delle mie osservazioni su questo bizzarro capitolo.

Il libro non è solo strano per la balzana idea, già analizzata, di screditare le fonti che ci parlano della crocifissione qualora siano tratte da racconti immaginari (come le commedie di Plauto), ma anche per una serie di pasticci che non sarebbero dovuti sfuggire ad un correttore di bozze, o ad una peer review, che a questo punto mi chiedo da chi sia stata fatta (teologi che non sanno il greco, forse?).

A pagina 227 si analizza un testo col verbo ἀνεσταυροῦντο, che l’autore ha la bontà di sciogliere nei suoi elementi costitutivi per spiegare ai lettori di quali parti sia composto, cioè del prefisso “ana-“ e dal verbo σταυρόω. Ma ecco cosa scrive:

Immagine

Compare un’inesplicabile dieresi sopra lo ipsilon, al posto dell’accento circonflesso, e appare altresì un erroneo accento acuto sopra l’alfa del prefisso ane- , al posto dello spirito.
Ma soprattutto, perché c’è scritto che il prefisso è “ane-“? Il prefisso non è “ane” ma “ana-“. Il fatto che in ἀνεσταυροῦντο ci sia un “ane-” è banalmente dovuto al fatto che quella “e”, all’interno del verbo, è l’aumento vocalico che segnala il tempo imperfetto. Quella “e” non fa parte del prefisso, fa parte del verbo, e come già detto è la marca del tempo imperfetto. Non è però possibile difendere l’autore del libro dicendo che ha riportato “ane-“ e non la forma base “ana-“ perché ha semplicemente copiato il verbo coniugato come si trova nel testo flaviano che stava analizzando. Se così fosse infatti avrebbe riportato anche l’altra metà del verbo nella forma originale, scrivendo che il verbo è composto da “ane-“ e da “-staurounto”, invece ha scritto che è composto da “ane-“ e da “stauroun”, citando nella seconda parte il verbo all’infinito. Ma con l’infinito, quell’ “ane-“ non ci sta, perché non dovrebbe avere l’aumento, e non dovrebbe avere neppure quell’accento acuto al posto dello spirito dolce, che è sbagliato in ogni caso.
Ma i pasticci proseguono. Per ben due volte la parola xylon viene scritta in greco con una k al posto dello xy (κύλον/kylon anziché ξύλον/xylon). A pagina 194 una prima volta:

Immagine

E a p. 195 un’altra:

Immagine

E alla vista di κύλον, mentre noi ci chiediamo chi abbia revisionato questo libro, rammentandoci delle lezioni da me già fatte sulla pronuncia italiana dello ipsilon, ci sorge il sospetto che questo saggio sia fatto col “kulo”. Ovviamente, nel senso greco del termine, giacché κύλον in greco vuol dire “solco”, e questo libro lascerà senz’altro un segno nella storia.

Notiamo che in altre parti dell’opera la parola ξύλον viene correttamente scritta, ma questa non è esattamente una garanzia che l’autore sappia il greco. Chi ignora questa lingua infatti ricorre massicciamente a dei copia e incolla, e dunque può darsi che le volte in cui la parola è scritta giusta egli copi da una fonte in cui è vergata correttamente, e le volte che sbaglia invece copi da una fonte in cui è stata scritta sbagliata, senza accorgersi della differenza. Tuttavia, non conoscendo i titoli di questo signore, né se abbia studiato greco al liceo o all’università, mi taccio. Non voglio fare speculazioni infondate.
Vorrei però far notare che i summenzionati pastrocchi grammaticali, che comprendono confusioni di lettere, l’incapacità di capire che l’aumento non fa parte di un prefisso, segni diacritici errati, attribuzione delle fonti a secoli sbagliati, sono un po’ troppi per chi pretenda di riscrivere quello che si troverebbe a proposito della crocifissione in un’enciclopedia d’antichità classica oxoniense, o in qualsiasi altra fonte.

Inoltre, abbiamo la netta impressione che l’autore si sia voluto sprecare assai poco per dare coerenza all’utilizzo dei testi originali e delle traduzioni. A volte si riporta il testo originale con la traduzione in nota, a volte solo il testo originale (il perché è un mistero). Delle traduzioni riportate in nota, la massima parte sono in inglese, qualcuna in italiano. Viene da chiedersi quale sia la coerenza di questa operazione, visto che si tratta sovente di opere comunissime, di cui esistono molteplici traduzioni in italiano, persino in edizione economica. Costava così tanto alzare il posteriore dalla sedia e andare in una biblioteca a trascrivere una traduzione stampata dalla BUR?
Ovviamente, non è che sia un problema per me leggere delle traduzioni in inglese, quello che non capisco è per quale assurdo motivo non ci sia uniformità, e a volte siano in inglese, altre in italiano. E perché mai poi, se esistono traduzioni italiane, sia andato a pescare quelle inglesi.
In un testo scientifico italiano si riportano sovente traduzioni in altre lingue, ma solo se quelle traduzioni rendono in una maniera particolare che si vuole segnalare. Ad esempio se devo citare le Leggi di Platone, ma la traduzione stampata dalla BUR non mi piace in quel punto, magari cito una traduzione francese fatta da Brisson che in quel rigo rende in una maniera particolare. Ma non avrebbe senso mettermi a citare a caso versioni francesi o inglesi delle Leggi platoniche, che nulla hanno di diverso dalle versioni italiane.
L’unica spiegazione che posso ipotizzare di questa profusione di versioni inglesi è che l’autore non si sia scomodato a fare grandi ricerche, e che abbia banalmente riportato traduzioni inglesi perché gli è stato più facile reperirle su internet, o in fonti anglofone da lui consultate, in particolare il divo Samuelsson, che Frattini ha ovviamente cannibalizzato per avere qualche straccio di illogica argomentazione.

La fonte flaviana nella cui analisi troviamo questi errori ortografici viene anche maltrattata con altre considerazioni storiche irrilevanti. Si cita un passo di Antichità Giudaiche dove il verbo anastauroo viene riferito ad un episodio occorso all’epoca del re Saul, e l’autore commenta che in questo caso il verbo non rimanda ad alcuna crocifissione ma ad un mero appendere. La cosa ovviamente è irrilevante, visto che per l’appunto si parla di eventi occorsi prima dell’epoca romana, e dunque non ci si può aspettare di trovare in quest’episodio un uso di anastauroo specifico del mos romanorum.
Viene poi citata un’occorrenza in Antichità Giudaiche dove si descrive una crocifissione di massa di ottocento Ebrei all’epoca di Alessandro Ianneo, e l’autore commenta che il gran numero dei suppliziati “non avrebbe consentito il rispetto di una (sic!) eventuale procedura di “tipo romano” (peraltro non menzionata), né la preparazione di strumenti di esecuzione cruciforme” (p. 228).
E noi ci chiediamo perché mai ce lo dica, visto che questa esecuzione di ottocento Giudei non fu fatta dai romani, e dunque l’assenza del mos romanorum è ovvia ed irrilevante.

Inoltre, come già spiegato, quando il mondo accademico sostiene che esista un mos romanorum della crocifissione, non sta dicendo che i romani appendessero sempre a croci. Potevano benissimo appendere a dei soli pali, specie per comodità nel caso si dovessero giustiziare centinaia di persone assieme.
Quello che il mondo accademico dice è altro: cioè che, se c’era un trasporto di patibulum previo alla crocifissione, allora la crocifissione veniva eseguita secondo una procedura che comportava il trasporto del legno orizzontale e poi l’issamento di questo ultimo sul palo già piantato nel terreno. Gli storici non hanno invece nulla da dire contro l’ipotesi che, qualora non ci fosse il previo trasporto di un patibulum, la gente potesse essere affissa direttamente ad un singolo palo. Ma non è questo quello che avvenne nel caso di Gesù, dove il trasporto del patibulum avvenne, e dunque l’esecuzione rientra nel rituale che conosciamo.

L’unico passo interessante di Giuseppe Flavio, non viene citato da Frattini. Sappiamo infatti da alcune fonti che esistevano dei pali per il supplizio già piantati per terra dai romanu, sovente fuori dalle città, ai quali veniva condotto il condannato che portava il patibulum. Cicerone si vantava di averlo tolto dal campo Marzio durante il suo consolato, e rimprovera Labieno che aveva ordinato di "conficcare e stabilire la croce per il supplizio dei cittadini" (Pro Rabirio 3,10; 4,11). A questo proposito cito il prof. M. Hengel dell’università di Tubinga, che, ironia della sorte, ha passato tutta la vita a studiare la crocifissione ed è il massimo esperto al mondo in materia: “In tutte le grandi città dell’impero vi dovevano essere simili luoghi di esecuzione, con croci e altri attrezzi di tortura: era un mezzo volto a dissuadere schiavi e violatori della legge e il segno di un regime severo ed inesorabile” (M. Hengel, Crocifissione ed espiazione, Brescia, Paideia, p. 91)

Una cosa simile ce la racconta Giuseppe Flavio, che ci riferisce un episodio interessante della Guerra Giudaica, avvenuto questa volta lontano dalle grandi città. Il legato romano Basso durante una campagna militare ha preso come prigioniero Eleazaro, e fa piantare uno stauros nel terreno dove l’avrebbe in seguito fatto crocifiggere. Il suo obiettivo era far sì che la sola vista dello stauros, ancor prima che Eleazaro vi fosse appeso, cagionasse il terrore nei giudei compagni di Eleazaro, e li spingesse ad arrendersi:

"Basso [il legato romano] dette ordine di piantare una croce (stauron), come per appenderci subito Eleazaro; visto ciò, quelli dalla fortezza furono presi da cordoglio, e alzando alti gemiti gridavano che la vista di quel supplizio era insopportabile. In quel momento poi, Eleazaro li supplicò di non permettere che egli subisse la più compassionevole delle morti [...] quelli allora, commossi dalle sue parole, cedettero" (BJ VII,202-203)

Da questo racconto si ricava:
1) la crocifissione romana avveniva su palo già piantato nel terreno;
2) anche nei luoghi fuori dalla città, dove non c'erano pali già piantati, i romani provvedevano a piantarne uno;
3) il condannato veniva attaccato al palo DOPO che questo era stato piantato;
4) in questo caso si risparmiò il supplizio a Eleazaro, ma il palo verticale era già stato piantato.

Certo, in questo caso, il fatto che Eleazaro non sconti la crocifissione ma la scampi, fa sì che il piccolo brano non menzioni la seconda parte della tortura. Assistiamo infatti all’interramento di un palo, dovuto al fatto che s’era lontani dalla città e non ve n’erano di disponibili, ma non si parla di quello che sarebbe successo dopo, cioè il fatto che Eleazaro sarebbe stato costretto a portare il patibulum fino al palo già piantato per terra. E tuttavia, questa descrizione, benché monca, è compatibile con la ricostruzione del mos romanorum data dagli accademici, in quanto ne descrive perfettamente il primo momento. Non è invece compatibile con la ricostruzione che la WTS dà della morte di Gesù. Infatti la WTS ipotizza che Gesù si trascinò il palo verticale, e che poi, alla fine del trasporto, quello venisse piantato per terra, ed ivi Cristo venne crocifisso. Ma l’episodio di Eleazaro mostra che il palo verticale invece veniva piantato prima dell’inizio di tutta la procedura, e dunque, Eleazaro non avrebbe potuto portarlo.
Come ripeto dunque, questo brano, benché monco, testimonia un modo di crocifiggere incompatibile con la ricostruzione che danno i TdG della morte di Cristo.
Come già detto infatti i TdG, intendi a screditare il mos romanorum di cui parlano gli studiosi, per conto loro invece fanno una ricostruzione alternativa della morte di Gesù che non ha documentazione o paralleli in NESSUNA fonte romana, cioè il previo trasporto del palo verticale, l’interramento del medesimo prima della crocifissione, e poi la sospensione del condannato su quel medesimo palo semplice. Tutti questi passaggi non si evincono da alcun parallelo antico, e dunque la procedura usata per Cristo dai pragmatici romani, se dessimo retta ai TdG, non avrebbe alcuna sicura altra attestazione in nessuna fonte antica. Il che è una cosa assai misera, per chi pretende di contrapporre questa ricostruzione fantasiosa a quello che crede tutto il mondo accademico, e che il mondo accademico riesce a documentare a differenza loro.
Che le fonti con cui il mondo accademico documenta il mos romanorum della crocifissione siano tante o poche, è questione di punti di vista. Per me sono anche troppe, visto la comprensibile ritrosia delle fonti antiche a profondersi in descrizioni di una procedura tanto ignominiosa. Ma in ogni caso, tante o poche che siano, sta di fatto che ci sono. Al contrario la procedura ipotizzata dai TdG di attestazioni non ne ha alcuna. Da nessun tetso è possibile dedurre in maniera inequivocabile che lo stauros trasportato fosse un palo verticale. O le fonti sono ambigue, e dunque inutili, o ci permettono di capire che era la trave orizzontale.
Certo, immagino già l’obiezione dei TdG… Essi potrebbero dire: “Ebbene, la nostra ricostruzione della crocifissione di Cristo è incompatibile con quella di Eleazaro, ma non ce ne importa, perché nulla vieta che i romani abbiano eseguito una procedura di crocifissione diversa nelle due occasioni”.
Non nego che sia possibile, e tuttavia, ancora una volta, abbiamo una fonte, l’ennesima, che coincide ed è compatibile con la ricostruzione del mos romanorum data dagli studiosi, mentre non è compatibile con la vostra ricostruzione. Fossi nei TdG mi farei qualche problema, perché, da capo, continuare a criticare le prove della crocifissione date dagli studiosi, dicendo che nulla prova che con Cristo si sia seguita la stessa procedura, non produce specularmente alcuna prova a favore della loro ricostruzione, che resta senza alcuna attestazione ulteriore. Sicché essi criticano le fonti altrui, ma dal canto loro non ne hanno nessuna.

Ma perché Frattini non cita questo passo di Giuseppe Flavio, e non cita neppure, cosa incredibile, i passi di Luciano di Samosata? Ho come l’impressione che non abbia una conoscenza di prima mano dei testi antichi nella loro interezza, e che dunque si sia limitato ad analizzare i testi citati nelle pubblicazioni critiche dei TdG, e quelli menzionati nel divo Samuelsson, senza fare grandi ricerche originali.
L’assenza di Luciano è inspiegabile, visto che Frattini dice di voler analizzare le fonti storiche sulla crocifissione in un periodo tra il 200 a.C. e il 200 d.C. (p. 195). Luciano è per l’appunto del II secolo, perché dunque non analizza nel dettaglio, visto che è una fonte citatissima sul tema? E perché limita la ricerca, o almeno si propone di limitarla, solo fino al 200 d.C., se l’impero romano è andato avanti altri 3 secoli? Probabilmente perché Frattini dipende in tutto dalle indicazioni del divino Samuelsson, e siccome lo svedese cronologicamente non va oltre questo secolo, Frattini si sarebbe trovato senza la sua principale stampella. Neppure Samuelsson del resto ha un capitolo dedicato a Luciano. La premessa di fermarsi al 200 d.C. è comunque disattesa in quanto si dedica un capitoletto a Firmico Materno (che scrive nel IV secolo, e non nel V come sogna la scienza filologica geovista).

A dire il vero Frattini cita Luciano una volta, a p. 195, ma non per analizzare qualche passo in un capitoletto dedicato all’autore come fa per le altre fonti, bensì solo per elencare gli autori citati dall’appendice della TNM. Infatti scrive: “La TNM-Rbi8 (versione con riferimenti, ediz. italiana) presenta nell’appendice 5C le motivazioni della propria scelta traduttiva. […] L’edizione inglese cita in aggiunta l’autore Luciano ricontando il senso del verbo anastauro’o (Prometeo I), l’autore Tito Livio, e il suo uso della parola crux”.
Che comicità, che candita ingenuità fidarsi delle pubblicazioni della WTS! L’ingenuo non sa che quel passo del Prometeo lucianeo al contrario è una delle migliori attestazioni che lo stauros fosse di cruciforme. Qui cito dal pdf di Leolaia, che ha ben commentato il passo lucianeo citato, con una spudorataggine senza precedenti, dalla WTS:

“Effettivamente Luciano usava ἀνασταυρόω per riferirsi all’appendere Prometeo alle rocce del Caucaso: “crocifiggiamolo (ἀνεσταυρώσθω) lì in mezzo, al di sopra della voragine” (Prometeo, 1.12). Ma la frase successive indica quale tipo di croce Luciano avesse in mente: “…con le sue braccia stese (ἐκπετασθεὶς τὼ χεῖρε) da codesto dirupo verso quello di fronte” . Questo indica un allungamento orizzontale delle braccia da una roccia all’altra, una postura che viene definita “croce” (ὁ σταυρὸς γένοιτο)". (1.19)
Per timore che ci possa essere qualche dubbio circa questo argomento, Luciano in seguito descrive le mani inchiodate separatamente con distinti chiodi: “Orsù tendi la destra; e tu Efesto, tienila ferma, fissa il chiodo e cala con forza il martello. Ora dammi anche l’altra. Si fermi bene anche questa!”. (2.3-8). Luciano dipinge il mitologico Prometeo come stesse allungando le sue mani orizzontalmente, come fosse sul patibulum, con ogni mano inchiodata individualmente, ed egli usa la parola σταυρός in riferimento a questa configurazione. Viene da chiedersi come la Società possa citare questo testo senza sapere che contraddice la loro affermazione secondo cui σταυρός significava semplicemente “palo”.

Ma torniamo al testo di Frattini. Egli scriveva: “L’edizione inglese cita in aggiunta l’autore Luciano ricontando il senso del verbo anastauro’o (Prometeo I)” Non so esattamente cosa ci faccia quell’apostrofo tra la omicron e l’omega di anastauroo, forse è il goffo tentativo di rendere l’accento acuto che sta sull’omicron. Ma se così è, ciò è coerente col resto del capitolo? In teoria occorrerebbe seguire un unico standard. Ad esempio o scegliere di omettere tutti gli spiriti e gli accenti, oppure, se li si riporta, farlo in modo uniforme. Abbiamo invece che qui in “anastauro’o” l’accento acuto è resto con un apostrofo, mentre dove si scrive σταυρός si sceglie di rendere l’accento acuto del greco con l’accento grave italiano (stauròs). In altre parole greche invece gli accenti vengono omessi: ξύλον infatti viene traslitterato xylon e πῆγμα con pegma (p. 272). E non vogliamo sentire la patetica scusa che era impensabile fare l’accento acuto sulla “y”, perché al pc si può fare benissimo: Ý.

Altra perla: a pagina 275 Frattini scrive “Gli Atti degli Apostoli parlano dell’oggetto di “legno” (ξύλος) sempre al singolare. Alcuni critici della TNM obiettano che la croce a due braccia, talvolta usata per le esecuzioni capitali al tempo di Cristo, poteva essere indicata con lo stesso termine al singolare. L’identificazione è possibile, ma non è in alcun modo automatica”
Ed in poche righe esibisce un errore grammaticale, ed un ragionamento scadente. Infatti “legno” non si dice ξύλος ma ξύλον (ma chi ha revisionato questo libro?), perché così scritto ha fatto diventare un nome neutro un maschile della seconda declinazione, e soprattutto è scadente il ragionamento. Xylon infatti è solitamente usato al singolare, quale che sia il numero di legni in gioco, perché questa parola indica qualsiasi oggetto fatto di legno, indipendentemente dal numero delle sue componenti, per metonimia. Vale a dire che si dice il materiale di cui la cosa è fatta, invece dell’oggetto. Come quando diciamo “il bronzo”, anziché dire “la statua”. È comune in greco, così come in italiano, leggere frasi come “il nostro legno solcava il mare”, e si sta parlando di una nave, che ovviamente è fatta di molti legni. Sicché, se xylon è plurale, allora certamente i legni sono più di uno, ma non è vero l’inverso. Se xylon è singolare, i legni possono essere uno o molti, perché la parola significa qualsiasi oggetto di legno in quanto indica il materiale di cui quell’oggetto è fatto. Infatti i traduttori seri, ad esempio quelli della Nuova Riveduta, pur credendo che Cristo morì su una croce, non hanno alcun problema a tradurre il passo degli Atti con “legno” “Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù che voi uccideste appendendolo al legno (ἐπὶ ξύλου)” (At 5,30)

Perché la croce è chiamata “legno” in quanto fatta di legno, così com’è chiamata “legno” una nave. Lo sa chiunque che xylon designa qualunque oggetto fatto di legno sulla base del materiale, e non del numero dei legni.

Ad maiora

P.S. Le lettere greche sono, in greco, di genere neutro. A Venezia i professori sono zeloti della teoria secondo cui il neutro greco corrisponda al maschile italiano, e dunque si dovrebbe dire “lo epsilon”, e non “la” epsilon. Tuttavia io sono elastico, e attribuisco alle lettere indifferentemente il genere maschile e femminile.

P.P.S. Prossimamente esamineremo altre perle di questo capitolo, che è una miniera davvero inesauribile di errori e disinformazione. Ergo non perdetevi la prossima puntata sempre su questi schermi.
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Messaggio da Achille »

polymetis ha scritto:E alla vista di κύλον, mentre noi ci chiediamo chi abbia revisionato questo libro, rammentandoci delle lezioni da me già fatte sulla pronuncia italiana dello ipsilon, ci sorge il sospetto che questo saggio sia fatto col “kulo”. Ovviamente, nel senso greco del termine, giacché κύλον in greco vuol dire “solco”, e questo libro lascerà senz’altro un segno nella storia.
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Messaggio da polymetis »

Achille Lorenzi ha scritto:
polymetis ha scritto:E alla vista di κύλον, mentre noi ci chiediamo chi abbia revisionato questo libro, rammentandoci delle lezioni da me già fatte sulla pronuncia italiana dello ipsilon, ci sorge il sospetto che questo saggio sia fatto col “kulo”. Ovviamente, nel senso greco del termine, giacché κύλον in greco vuol dire “solco”, e questo libro lascerà senz’altro un segno nella storia.
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Achille, quanto sei mattiniero!
Comunque, più ci penso, e più mi convinco che una recensione su una rivista di questo libro come quella che vorrebbe fare Teo è impossibile. Ci sono semplicemente troppi errori, troppi punti di vista insensati, troppi refusi, e ciò nel solo capitolo che ho preso in mano, per poter stare nello spazio richiesto da un articolo di rivista. Bisognerebbe scrivere un libro intero per rettificare questo saggio, non essendoci pagina in cui io non strabuzzi gli occhi per le affermazioni prive di genuino metodo storico dell'autore.

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teodoro studita
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Messaggio da teodoro studita »

Si, ci sono una settantina di errori ortografici nel pur poco greco presente nel libro, una vera catastrofe, quasi come le faccine di questo forum.
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Giovanni64
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Messaggio da Giovanni64 »

teodoro studita ha scritto:una vera catastrofe, quasi come le faccine di questo forum.
Noto una certa furia...emoticonoclasta. A parte gli scherzi e le parole inventate da me che non conosco il greco se non un briciolo di quello tardo-americano, devo dire che neanch'io stravedo per le emoticon.
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