Cogitabonda ha scritto:Proprio così cara Arwen. La speranza non è consolazione, può essere uno stimolo per vivere, per continuare a spendere le proprie energie in quei momenti in cui ci si chiede "ma a che pro? chi me lo fa fare?" ma non è una medicina contro il dolore. Ricordo una persona a me vicina, profondamente credente, che alla morte prematura del marito diceva: "Io credo, io so che lo rivedrò, ma adesso mi manca tanto, e mi angoscia il pensiero del tempo che dovrò vivere senza di lui".
Anche io, come credente mi sento addolorato nell’attesa di rivedere tutte le persone care che ho perso, vorrei rivederle già ora. E’ il dolore della mancanza, e non amerei quelle persone se non lo avessi. La fede non toglie il dolore, gli dà un senso, un significato, e quando si capisce il significato di quel dolore, esso viene enormemente mitigato. Tipico esempio è il dolore della madre che partorisce il bambino, normalmente questo dolore viene ben tollerato, perché la madre capisce il senso che ha quel dolore: serve a dare alla luce una nuova vita, e questa nuova vita sarà la sua gioia, appaga il suo desiderio di diventare madre. Possiamo forse dire che la madre sia egoista perché cerca la gioia di essere madre? Eppure sembra che qui il credente venga accusato proprio di questo: è un egoista perché cerca una gioia dando un senso al dolore attraverso la sua fede, come se quella gioia volesse rubarla agli altri. Inoltre, non è che il credente manifestando la sua fede, ed il modo in cui questa lo rende capace di dare un senso al dolore, voglia negare altre strade, diverse dalla fede. Se un ateo, attraverso il suo ateismo, riesce a dare un significato al dolore, lo faccia pure, nessuno glielo vieta. Semplicemente a noi quella strada non convince, ne preferiamo un’altra, e non perché siamo solo degli illusi o abbiamo una fifa matta della morte, ma perché ne percepiamo l’insufficienza, e questa percezione ci viene sia dal cuore che dalla ragione.
Victor, nei momenti in cui il nostro prossimo soffre più intensamente non possiamo dare conforto offrendo i nostri ragionamenti, religiosi o atei che siano. Non funziona.
Credo che occorra valutare caso per caso, non è possibile generalizzare. Se il sofferente è un credente cristiano, ricordargli i contenuti della sua fede spesso lo porta ad avere una visione più serena della sua sofferenza, gli toglie la disperazione. Ma anche in questi casi occorre capire come egli sta vivendo il suo dolore e valutare se sia il caso di parlare con lui di quegli argomenti o se sia meglio stare in silenzio. Nel caso di un non credente penso che le cose siano analoghe, va valutato caso per caso, ci sono casi di conversioni in punto di morte, e quindi parlare di un aldilà al sofferente non può che fargli bene, perché è proprio quello che cerca in quel momento.
Al contrario non credo faccia bene a nessuno, ateo o credente, dirgli in punto di morte che lui è destinato solo al nulla.
Possiamo al massimo dare una briciola di forza per reagire, di voglia di vivere, e possiamo riuscirci tutti, atei o cristiani, se impieghiamo la nostra sensibilità e il nostro affetto e lasciamo che sia il nostro cuore a dettarci i gesti e le parole giusti, quelli di cui quella certa persona ha bisogno in quel certo momento.
Sì, su questo sono senz’altro d’accordo.
Non è offrendo un pensiero preconfezionato che ci si riesce.
Come ho detto sopra, va valutato caso per caso.
Un saluto
Vittorio