Siamo tutti stranieri, nessuna terra è nostra
Il nazionalismo peggiore è quello di legittimazione religiosa. Ne abbiamo avuto un esempio con il nazismo, che è stato una filiazione diretta del cuius regio eius religio. La matrice del nazionalismo religioso, che è una vera metastasi, si ha quando la religione, che è in cerca di assoluto e si legittima nell’assoluto, sostiene di possedere la verità. Io tento di contrastare questa tendenza perniciosa che è presente nell’Ebraismo, ma non solo, è un’ idea comune a tutti i monoteismi: l’idea della verità, il “noi abbiamo la verità”. Io sostengo: noi abbiamo opinioni. Inoltre: noi non abbiamo rivelazioni, abbiamo storie di rivelazioni, che è molto diverso.
Sto conducendo una mia personale battaglia, anche se non conto niente, ma la faccio ugualmente: io voglio difendere Dio dai religiosi. Questo è il mio impegno moni-ovadia-4principale perché non vogliono difendere Dio, vogliono rubargli il posto. Quando la legittimazione della terra è una legittimazione che pretende il valore assoluto, secondo un meccanismo comune a tutti i nazionalismi (“qui ci sono stati i miei padri e i padri dei miei padri”) diventa una devastazione che porta al teppismo violento, all’odio nel confronto degli altri, al desiderio di espellerli, di isolarli.
Non avrei mai creduto possibile vedere stelle di Davide nere – il colore della svastica - dipinte da giovani ebrei con il passamontagna come i black block per inneggiare alla terra inviolabile, la terra per cui versare il proprio sangue e quello degli altri. Ritengo che da questo punto di vista il nazionalismo ebraico sia una delle forme peggiori di nazionalismo, perché fa regredire l’Ebraismo a prima di Abramo. Ci si dimentica troppo spesso che Abramo fonda l’identità monoteista uscendo da una città, non fondando una città, e si presenta al mondo come straniero: “Sono io straniero e abito con voi”.
E la promessa di terra – perché qui sta la maledetta trappola – è sempre sub condicione: Dio dice sempre “la terra è mia”. Solo allora puoi andare in una terra promessa, solo quando sai che non è tua. La terra promessa è una terra in cui si vive da stranieri tra gli stranieri; non lo dico io, si legge nel Levitico (23, 25): “Tu nel cinquantesimo anno istituirai il giubileo, la terra è mia – dice Dio – la terra non verrà venduta in perpetuità perché la terra è mia”.
Infatti gli incrementi di proprietà venivano riazzerati e la terra ridistribuita secondo equità, a far capire che la terra non è dell’uomo, non può essere incrementata; all’uomo spetta solo ciò che gli serve per vivere. E prosegue: “Insieme allo straniero che gode dei tuoi stessi statuti, ricordati che fosti straniero in terra d’Egitto”. L’identità ebraica si forma nel deserto e non nella terra. Da ultimo il Santo Benedetto dice: “Davanti a me siete tutti stranieri” e una Bibbia protestante traduce: davanti a me siete tutti meticci avventizi.
Per questo io inorridisco di fronte al nazionalismo ebraico; il che non ha niente a che vedere, naturalmente, con il diritto di Israele a vivere in uno stato democratico che basa la propria identità statuale sul diritto internazionale e sui diritti universali, sul riconoscimento degli stessi diritti a un altro popolo che gli sta vicino; però questo è un altro discorso che rientra in un diverso progetto perché Israele, Israele proprio come Stato, ha anche una sua valenza simbolica MIDEASTnella “ricomposizione dell’infranto” di un popolo che doveva essere sterminato e che per un terzo è stato sterminato.
“E’ un grado di saggezza superiore sentirsi stranieri ovunque rispetto al sentirsi a casa ovunque”. E’ una citazione da Ugo da San Vittore, scrittore italiano del 1100, il quale dice: “Chi trova dolce la propria terra è solo un tenero dilettante; chi trova dolci tutte le terre è un uomo che si è incamminato già su una buona via, ma solo è perfetto chi si sente straniero in ogni luogo”. E questo viene secondo me proprio dalla grande tradizione biblica, anche evangelica – San Paolo ha parole memorabili sullo straniero – e tutte le grandi spiritualità riconoscono nello straniero il portatore della benedizione, l’onore verso lo straniero è una cosa sentita. Purtroppo il vero grande problema è che lo straniero viene percepito solo nell’alterità e non nella dimensione del sé.
Questa citazione da Ugo di San Vittore l’ho sentita da Todorov, grandissimo filosofo e sociologo bulgaro esule in Francia, che a sua volta l’aveva ripresa da Edward Said, intellettuale palestinese straordinario mancato qualche anno fa, che viveva esule negli Stati Uniti. Possiamo dire che è una citazione che circola tra gli esuli. Julia Kristeva, in un libro memorabile che costituisce una pietra miliare sull’argomento e che lei ha intitolato mirabilmente “Etrangers a nous même”, dice nel primo capitolo che lo straniero non è né la rivelazione in cammino, né l’avversario immediato da eliminare per pacificare il gruppo. Stranamente lo straniero ci abita, è la parte nascosta della nostra identità, la parte che destabilizza la simpatia e l’empatia familiare, che decostruisce l’abitazione, la parte oscura e inquieta. Riconoscerla in noi ci risparmia la vergogna di odiarla nell’altro.
Il vero problema della difficoltà che abbiamo con lo straniero è perché non riconosciamo lo straniero che è in noi, che è la parte più anticonformista, quella più slegata dal comunitarismo, è quella più ribelle che scalpita e di cui abbiamo una terribile paura perché la parte predominante in noi è conformista e vuole stare tranquilla. Non vuoi perdere la tua casa, anche se perdere la tua casa significa conquistare conoscenza e sapienza. L’immensa e poderosa metafora di Ulisse: a chi tocca il privilegio di essere esule? Di essere colui che fa per dieci anni una vita infernale ma acquisendo conoscenza e brillando per diventare migranti-8senso stesso del cammino di una civiltà universale. Chi tra tutti gli eroi? Il sapiente, il paziente Ulisse, a lui tocca il privilegio di diventare esule perché la conoscenza e l’intelligenza sono le sue virtù principali.
Questa la dice molto lunga. Quando noi tutti ci faremo degli Ulisse saldandoci con l’esodo…. L’esodo è uno dei punti più grandi in cui l’Ebraismo si salda con la grecità epica dell’epos, ecco che in questo senso Mosè invita ad andare fuori, Mosè non tornerà nella terra e non è un caso che il più grande in Israele non metta piede nella terra e non si sa dove sia la sua tomba. La tomba di Mosè nella terra sarebbe stato un potente aggregante nazionale, ma gli ebrei non sarebbero più stati gli ebrei. Mosè tiene molto a mantenere la condizione dell’esilio. E’ la grande dialettica incomponibile, diciamo una sorta di aporia vitalizzante che è quella tra particolarismo e universalismo, fra terra ed esilio, che va mantenuta costantemente in vita.
Il rapporto con i nostri i stranieri? La Bibbia a questo proposito è inequivoca. Nel Levitico (19, 18) è scritto: “Amerai il prossimo tuo come te stesso” e poco più in là: “Lo straniero che abita presso di te non lo molestare, è come il tuo compatriota”. “Amerai lo straniero” è il comandamento più ripetuto in tutta la scrittura ebraica, il più importante.Vogliono trasformare la Torah in un manuale di nazionalismo aggressivo e, lo ripeto e insisto (è per questo che mi sono preso degli insulti) questo è il vero problema: vogliono riportare l’Ebraismo alla dimensione tribale dalla quale Abramo lo ha fatto uscire. Abramo rompe il tribalismo, crea la condizione di straniero proprio perché devi farti straniero per poter coniugare universalismo e particolarismo; l’ebreo diasporico dell’Est Europa, proprio stando con la Torah, ha prefigurato il cittadino europeo quando l’Europa non era pronta, era ancora isterica e piena di nazionalismi e di lacerazioni e di divisioni.
L’ebreo è stato distrutto perché incarnava proprio un cittadino transnazionale: era sì, lealissimo cittadino del suo paese, ma magari parlava setto o otto lingue, aveva parenti in ogni angolo d’Europa e anche fuori, aveva una specie di internet che era l’Yiddish, era straniero eppure cittadino del proprio paese, era straniero eppure era il poeta più grande della cultura che rappresentava: prendiamo Heine, neppure i nazisti sono riusciti a toglierlo dai prontuari scolastici tanto era importante. L’ebreo dell’Yiddish, che è a suo modo lo rabbini-1zingaro in una maniera più lirica, ha prefigurato quel cittadino europeo che goffamente noi cerchiamo di costituire. Loro lo erano in modo molto meno goffo perché erano a loro agio dovunque e a disagio dovunque.
Io sono italiano, sono nato italiano, la mia lingua è l’italiano, mio zio Samuel è sepolto a Redipuglia, è morto per la patria nell’11° Reggimento Bersaglieri, eppure io mi sento terribilmente a disagio, in questo momento mi sento molto più esiliato qui che quando vado fuori, ma non mi dispiace questa condizione di esiliato, me ne dispiacciono le ragioni. La capacità di essere europei ci arriverà solo quando noi usciremo dalla schiavitù del nazionalismo che in realtà non è solo la schiavitù del furore antagonistico, ma è anche il panico di perdere il proprio ubi consistam. Risponderei a Battiato: io non cerco il mio centro di gravità permanente ma il mio centro di disequilibrio permanente.
Questa è la storia in cui ancora si agita l’Europa che fatica molto ed è ancora ricolma dei suoi infami retaggi nazionalistici, sia dal punto di vista dei furori, lo vediamo con il localismo e lo vediamo con l’opportunismo nella guerra dell’ex Jugoslavia: l’Europa si è comportata in maniera ripugnante, parlo delle strutture nazionali, non parlo degli europei che sono andati ad aiutare, gli straordinari ragazzi della solidarietà. Che cosa ha fatto l’Europa: non ha sostenuto l’esperimento Marcović che poteva tenere insieme la Federazione, un esperimento transnazionale che poteva essere paradigma per un’Europa transnazionale.
La Germania ha immediatamente riconosciuto la Croazia, immediatamente! Vecchio vizio, eh? E così ha fatto il Vaticano dividendo i cristiani – mi dispiace dover dire queste cose ma adesso in Vaticano le sanno meglio di me – dividendo tra cattolici e cristiani, infatti cattolicissimi croati e cristianissimi serbi si sono massacrati con crudeltà inaudita. E noi andiamo a dare lezioni all’Islam?
Sono molto vicino alle identità minoritarie perché devono continuamente subire la prepotenza delle maggioranze. Ho difeso, difendo, mi occupo, addirittura diffondo come paradigma l’identità minoritaria ebraica, il popolo ebraico in Europa perché gli ebrei, come gli zingari, sono gli unici ad aver realizzato un capolavoro unico nella storia dell’umanità: un popolo in tutto e per tutto, con profonde strutture del sentimento, emozioni, riconoscibilità, islam-preghiera-2identità, tradizioni, letteratura, lingua, canti, fede, fervore, eppure popolo senza nazioni, senza fili spinati, senza burocrazia, senza eserciti, senza coltelli in tasca. Per questo è stato così facile sterminarli.
Ma quando la stessa identità ebraica si situa in una terra dove dovrebbe potersi realizzare lo Stato super-democratico in cui qualcuno sognava addirittura che il presidente potesse essere un arabo (e perché no? Ci sono un milione di palestinesi che vivono nello stato di Israele, ci sono un milione di russi, di cui almeno la metà non è ebrea, ma per me se un russo che se ne è andato dall’Unione Sovietica e vuole essere ebreo, secondo me è così pazzo da rappresentare il paradigma dell’ebraismo), quando quella stessa identità diventa maggioritaria….
Oggi il vero problema della pace con i palestinesi è questo: ritornare, da parte degli israeliani, a farsi minoranza con spirito di minoranza in mezzo alla minoranza palestinese e naturalmente ritrovare l’equilibrio dei due popoli che hanno storie diverse ma anche simili sofferenze, ritrovarsi e progettare dapprima sul piano simbolico la ricomposizione per scendere poi su quello pratico. Quindi difendo i piccoli nazionalismi? No, dipende. Io difendo i disarmati, i poveracci.
Sta succedendo che l’evoluzione dalla scimmia all’essere umano è molto più lenta di quella che noi, in modo molto arrogante e con una hibrys inspiegabile, credevamo. Quando un uomo fa l’affermazione “Dio è con noi”, che non a caso è stata codificata dal nazismo (Gott ist mit uns) scende a quello stesso livello. Non importa se si chiami Osama Bin Laden o George W. Bush. Che cosa è successo? Questa è una mia teoria: gli idolatri, potentissimi, sono ancora i dominanti.
Noi non siamo affatto dominati, come ci viene detto, dal monoteismo, noi siamo dominati dall’idolatria. Quando il monoteismo ha fatto la sua irruzione potente e rivoluzionaria, perché è stata la rivoluzione più grande della storia dell’umanità, e non uso la parola rivoluzione casualmente, viene fondato l’essere umano come lo intendiamo noi.
Prima di Abramo non c’è l’essere umano. Abramo lo unifica, lo rende universale. Gli idolatri hanno capito che non c’era gioco con quel Dio lì: troppo potente… mandava a carte quarant’otto il sistema e allora hanno detto: ci pensiamo noi, entriamo dentro e quel Dio lo facciamo diventare un idolo. Perché quando uno dice “Gott ist mit uns”, prima di tutto non ha letto il vangelo: Dio fa piovere sui buoni e sui malvagi.
Se il Dio del monoteismo è il Dio di tutti, e se Bush si sforzasse, scoprirebbe che c’è un versetto del Corano, il 48 della seconda Sura, che dice: “Se Allah avesse voluto fare di tutti gli uomini una sola comunità di fede lo avrebbe fatto”, sottinteso che invece non ha fatto così. “A ciascuno di voi ha dato una regola e una via: gareggiate nelle opere di bene, un giorno tornerete ad Allah e lui vi spiegherà le ragioni del vostro essere diversificati”. Il merito è l’opera di bene, non la religione. Ciascuno ha la sua, non c’è problema. E’ la volontà di Allah, l’Onnipotente. Ma c’è un altro versetto ancora più bello, il 256 della seconda Sura, che dice: “Se Allah avesse voluto fare di tutti gli uomini dei credenti, lo avrebbe fatto”.
(Moni Ovadia, estratti da un’intervista rilasciata a “DireOnLine”,
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