DEL GESÙ STORICO?
Con il Concilio Vaticano II la Chiesa cattolica scelse
di rimettere la Bibbia la centro della sua vita:
“La predicazione ecclesiastica come la stessa religione
cristiana sia nutrita e regolata dalla Sacra Scrittura”,
recitava la costituzione dogmatica Dei verbum.
Ma il difficile equilibro fra esegesi storica e teologia
biblica era destinato ad andare presto in crisi.
La ricerca storica sulla figura di Gesù e sul cristianesimo
primitivo, infatti, entra inevitabilmente in conflitto
con le attuali istituzioni ecclesiastiche.
MAURO PESCE
Le motivazioni di un fenomeno così vasto e persistente vanno cercate in esigenze religiose profonde e in trasformazioni culturali collettive di grande rilievo. La figura di Gesù costituisce uno dei pilastri fondamentali di tutte le culture che si ispirano al cristianesimo.
Un’interrogazione su Gesù nasce dunque necessariamente dal bisogno di ritrovare un fondamento ultimo per i valori della nostra società e dalla percezione che le Chiese e la cultura in genere rappresentano in modo poco adeguato il suo messaggio e il suo modo di vita sconvolgente.
Il problema della lontananza della Chiesa latina dalle sue basi bibliche era stato posto con chiarezza già agli inizi dell’età moderna. L’umanesimo aveva manifestato l’esigenza di rileggere in modo autentico la Bibbia a partire dai testi originali ebraici e greci, per rinnovare alle fonti la vita religiosa e i concetti che la esprimono. Simbolo di questa esigenza fu la critica alla traduzione latina della Volgata accusata di non rappresentare fedelmente il messaggio della Bibbia.
La riforma protestante affrontò in modo teologico il problema ponendo in modo radicale la questione: la Chiesa doveva rinnovarsi completamente rifacendosi alla parola di Dio. Tutto ciò che nella Chiesa (sacramenti, dogmi, teologia, diritto canonico, liturgia, prassi religiosa) non corrispondeva alla Bibbia non aveva legittimità e doveva essere riformato.
Certo, nella Chiesa di Roma non mancarono tentativi di ritorno alle basi fondamentali del cristianesimo. Purtroppo, però, la risposta principale del Concilio di Trento fu che la Bibbia doveva continuare ad essere letta nella traduzione latina della Volgata e soprattutto che essa non era la base unica della Chiesa. Accanto ad essa permaneva la tradizione ecclesiastica. La Bibbia e la tradizione potevano essere interpretate solo dalla Chiesa romana stessa. Questa risposta tendeva a rendere impossibile ogni tentativo di riforma basata su un appello diretto al fondamento biblico.
I secoli successivi trovarono spesso la Chiesa di Roma ferma su un atteggiamento di opposizione agli sviluppi dell’età moderna in campo filosofico, politico, teologico. Cosicché la cultura europea si trovò spesso spaccata tra un clericalismo e un anticlericalismo, che sembrano i due poli sistemici di un problema irrisolto.
Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento una grande ondata di rinnovamento (il cosiddetto «modernismo») percorse la Chiesa cattolica. L’autorità ecclesiastica si oppose in modo estremamente deciso ad essa, bollandola come un cedimento allo spirito moderno, senza voler riconoscere le istanze di riforma che partivano da un profondo bisogno religioso di ritorno ai fondamenti del cristianesimo.
Dagli inizi degli anni Trenta nascevano però nuove esigenze di rinnovamento che si manifestarono questa volta con un atteggiamento che non entrava necessariamente in linea di collisione con l’autorità ecclesiastica. Anzitutto, il bisogno di riforma non seguiva più il principio protestantico di un’opposizione radicale tra parola di Dio e istituzione ecclesiastica. In secondo luogo, si proponeva un ritorno a una tradizione ecclesiastica antica, quella dei primi quattro concili ecumenici, proponendo così un ritorno alla Bibbia, ma all’interno della tradizione ecclesiastica che l’aveva interpretata e senza scardinare il dogma cristologico. Infine, le esigenze di riforma superavano la spaccatura Chiesa-modernità e non si basavano su un’accettazione del pensiero moderno, quanto piuttosto su alcune tendenze filosofiche spiritualiste del Novecento. Ad esempio il gesuita Henri de Lubac si ispirava al filosofo cattolico Maurice Blondel, che aveva proposto una rilettura cristiana del principio moderno dell’immanenza, tentandone un superamento dall’interno.
Nacque il movimento biblico, quello liturgico e quello ecumenico che costituiscono i tanti rivoli che sfociano poi nel tentativo di rinnovamento della Chiesa latina lanciato dal Concilio ecumenico Vaticano II.
a) il principio protestantico del primato della Bibbia rispetto alla tradizione ecclesiastica;
b) la critica storica elaborata e sviluppata straordinariamente dai tempi dell’umanesimo fino alle scienze bibliche dell’Ottocento e del Novecento.
Su questi temi una lotta senza interruzione si era manifestata nel cattolicesimo nei primi sessant’anni del secolo che precedevano il Concilio. Nel novembre 1965 il Concilio approvò la Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione (Dei verbum1) che rappresenta il documento fondamentale per l’interpretazione della Bibbia e perciò anche per la comprensione della figura storica di Gesù che si può trarre dai Vangeli.
A differenza delle grandi encicliche papali sulla Bibbia e dei documenti della Pontificia Commissione biblica dei decenni precedenti, lo scopo fondamentale della Costituzione non è, primariamente, di presentare la posizione della Chiesa cattolica sugli studi biblici, ma è molto più ampio: riguarda la definizione della natura della rivelazione di Dio, i modi in cui si è concretata nella Bibbia e il ruolo della Parola di Dio nella vita della Chiesa. Le novità fondamentali della Costituzione possono forse essere ridotte a tre:
a) un’impostazione teologica che rompeva con la trattazione atemporale e astratta della scolastica, per esprimersi nei termini di una visione storica della rivelazione;
b) una concezione unitaria e non dualistica dei rapporti tra Sacra Scrittura e tradizione dalla quale scaturiva di fatto un rovesciamento del rapporto tra questi due fattori che aveva dominato nel periodo tridentino;
c) il fatto di assegnare un ruolo centrale alla Sacra Scrittura nella vita della Chiesa.
La Costituzione ribadiva la necessità dell’applicazione del metodo storico per una corretta interpretazione della Bibbia e specificamente dei generi letterari (§ 12).Tuttavia, proprio perché proponeva la centralità della Sacra Scrittura per la vita della Chiesa, la sua attenzione si concentrava anche sulla necessità di un’interpretazione teologica della Bibbia che integrasse e superasse quella semplicemente storica: «Dovendo la sacra Scrittura esser letta e interpretata con l’aiuto dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta, per ricavare con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e alla unità di tutta la Scrittura, tenuto debito conto della viva Tradizione di tutta la Chiesa e dell’analogia della fede» (§ 12). Il capitolo finale della Costituzione (La Sacra Scrittura nella vita della Chiesa, § 6), lungi dall’essere un’appendice era invece lo sbocco naturale in un programma ambizioso di riforma religiosa: «Insieme con la Sacra Tradizione, la Chiesa ha sempre considerato e considera le Divine Scritture come la regola suprema della propria fede. […] È necessario dunque che la predicazione ecclesiastica come la stessa religione cristiana sia nutrita e regolata dalla Sacra Scrittura» (§ 21).
Il rovesciamento del rapporto tradizione/Scrittura, come anche le modifiche dell’ecclesiologia sanzionate dalle costituzioni dogmatiche sulla Chiesa (Lumen gentium) e sulla liturgia (Sacrosanctum Concilium), rendevano possibile un nuovo progetto di centralità della parola di Dio, assente nel Concilio di Trento: «È necessario che i fedeli abbiano largo accesso alla Sacra Scrittura. […] Poiché […] la parola di Dio deve essere a disposizione di tutti in ogni tempo, la Chiesa cura con materna sollecitudine che si facciano traduzioni appropriate e corrette nelle varie lingue, a preferenza dai testi originali dei sacri Libri».
È necessario perciò che la teologia, la predicazione e la catechesi e «ogni forma di istruzione cristiana» si basino «sulla parola di Dio scritta» «come fondamento perenne» (§ 24). La vita religiosa sia dei presbiteri che dei laici deve costruirsi sulla parola di Dio «mediante la sacra lettura e lo studio accurato» (§ 25). In sostanza, il Vaticano II scelse di porre la Bibbia al centro della vita della Chiesa, attenuò la dualità tipica della teoria delle due fonti della rivelazione che poneva sullo stesso piano la Bibbia e la tradizione, ma non riuscì e non volle eliminare del tutto il dualismo.
La funzione della tradizione accanto alla Bibbia, infatti, non veniva negata, veniva anche riaffermata l’assoluta fedeltà degli insegnamenti ecclesiastici al messaggio di Gesù, integrato dall’assistenza dello Spirito Santo. La Chiesa cattolica veniva ripresentata come fedele garante della verità del messaggio di Gesù. Il numero 2 della Costituzione non lascia dubbi: «Cristo Signore […] ordinò agli apostoli che l’Evangelo […] venisse da loro predicato a tutti come la fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale, comunicando così ad essi i doni divini. Ciò venne fedelmente eseguito. […] Gli apostoli poi, affinché l’Evangelo si conservasse sempre integro e vivo nella Chiesa, lasciarono come loro successori i vescovi,
ad essi “affidando il loro proprio posto di maestri”. Questa sacra Tradizione e la Scrittura sacra dell’uno e dell’altro Testamento sono dunque come uno specchio nel quale la Chiesa pellegrina in terra contempla Dio, dal quale tutto riceve, finché giunga a vederlo faccia a faccia, com’egli è» (cfr. 1 Gv 3,2).
La Costituzione dogmatica Dei verbum, nella sostanza, non accettò il principio protestantico della trascendenza della Bibbia rispetto alla tradizione ecclesiastica. La parola di Dio, la rivelazione, si trova nella Bibbia, ma essa è difesa e trasmessa dalla Chiesa. La Dei verbum non accettò neppure il principio umanistico e storico moderno secondo il quale il testo biblico trae la certezza della sua verità storica dall’analisi filologica e storica dei testi, pur affermando che i testi biblici vanno letti negli originali ebraici e greci e che le traduzioni in lingua volgare vanno condotte su quei testi originali e non sulla Volgata. In sostanza la Bibbia e la ricerca storica non diventano per il Concilio Vaticano II dei criteri di verità da cui la Chiesa cattolica deve dipendere. Anzi, nel post-Concilio, si è sempre più affermata la tendenza teologica a pretendere dal biblista cattolico una lettura dei testi alla luce della fede della Chiesa. Se la Bibbia è la parola di Dio sulla bocca della Chiesa non è possibile pretendere che il biblista trovi nei testi biblici un senso teologico divergente da quanto la fede della Chiesa propone.
Il contrasto fra le diverse tendenze teologiche presenti nel Concilio si riflette nel medesimo testo della Dei verbum che contiene affermazioni che vanno tendenzialmente in senso contrario. Da un lato si affermava con chiarezza il primato della parola di Dio presente nella Bibbia rispetto alla tradizione, ma dall’altro si affermava che solo nella tradizione della Chiesa, assistita dallo Spirito Santo, era trasmessa la verità del messaggio. Inoltre il fatto che allo studio della Bibbia venisse urgentemente richiesta una funzione ecclesiale (che cioè lo studio della Bibbia avesse come fine quello di presentare un chiaro messaggio di fede ai fedeli laici non specialisti di studi esegetici) portava sempre di più a potenziare la domanda di tipo teologico e pastorale rivolta agli esegeti. I biblisti perciò si trovarono, col passare degli anni, sempre più investiti dalla richiesta di una lettura che subordinasse la ricerca storica al bisogno di una comprensione dei testi biblici all’interno della fede.
con questioni e con sedimentazioni secolari.
Circa il problema della coordinazione tra ricerca storica sul testo biblico e uso religioso della Bibbia nella Chiesa, i grandi maestri dell’esegesi cattolica dell’ultima generazione erano consapevoli della differenza tra esegesi storica e teologia biblica e la consideravano legittima, anzi doverosa. In una prima fase del dopo Concilio, probabilmente fino alla fine degli anni Settanta, la soluzione prevalente fornita dagli esegeti è forse quella teorizzata da A. Descamps, un biblista di Lovanio che era fondamentalmente fedele al metodo storico nella lettura della Bibbia. La preoccupazione per l’ortodossia non spinge affatto Descamps (membro della Commissione biblica dal 1967 e consigliere di Paolo VI e poi di Giovanni Paolo II) al sospetto verso una rigorosa esegesi storica o addirittura alla negazione della sua legittimità per i testi biblici. Il suo intento è quello di combattere «i risultati […] ibridi» «di un’ermeneutica mezzo storica e mezzo teologica della Bibbia». L’accordo tra l’esegesi storica e la teologia della Chiesa poteva essere ottenuto attraverso una difficile distinzione tra esegesi storica e teologia biblica. L’esegesi storica considera il testo come frutto di un autore umano stimolato da un preciso contesto religioso e sociale, nella sua diversità storica rispetto a qualsiasi altro testo, compresi quelli contenuti nel canone. La teologia biblica invece considera ogni singolo testo biblico in quanto parte di un canone, quello neotestamentario, cioè di un insieme di scritti in cui si manifesta la rivelazione di Dio e che perciò posseggono unità di senso, posto che provengono da un medesimo autore divino.
L’equilibrio difficile non poteva essere mantenuto a lungo. La ricerca storica evidenziava in modo inequivocabile che Gesù e il primissimo cristianesimo avevano concezioni religiose, istituzioni e prassi molto diverse non solo dalla Chiesa attuale, ma anche dalla Chiesa antica. Una teologia e una vita religiosa che volessero basarsi perciò sulla Bibbia entravano inevitabilmente in confronto dialettico con gli assetti ecclesiali in vigore.
Lo schema teologico che aveva permesso la grande svolta del Concilio Vaticano II si era spesso basato sull’affermazione che il sistema teologico tridentino dovesse essere superato non in base a un’esigenza di cambiamento rivoluzionario, ma in base a un maggiore rispetto dell’integrale tradizione ecclesiastica. La teologia che soggiace al Concilio Vaticano II è solo moderatamente innovatrice. Essa propone come criterio di verità ultimo non il messaggio di Gesù nudo e crudo, ma il messaggio di Gesù così come è stato interpretato dalla Chiesa antica dei quattro grandi concili. La parola d’ordine era «ritorno alle fonti», ma le fonti erano costituite dalla tradizione antica non dalla Bibbia né tantomeno dalla figura storica di Gesù.
Ora, invece, l’esegesi storica portava più a fondo il confronto rimettendo in luce, nella loro fisionomia storico-religiosa, gli stessi primissimi inizi: Gesù e la Chiesa primitiva. Anche la Chiesa antica, che era stata il punto di riferimento centrale dello schema del ritorno alle fonti, era, in questa prospettiva storica più rigorosa, sottoposta al medesimo confronto dialettico. L’esegesi storica andava nel senso di un più integrale ritorno alle fonti. Ben presto cioè alcuni compresero che lo schema del ritorno alle fonti della Chiesa antica era solo una riforma a metà che lasciava insoluti i due grandi problemi: quello posto dal principio protestantico del primato assoluto della parola di Dio sulla Chiesa e quello moderno e umanistico del primato della ricerca storica per appurare come i fatti si erano svolti o potevano ragionevolmente essere ricostruiti.
Era necessario un più autentico e radicale ritorno al messaggio di Gesù integralmente ricondotto al suo ambiente ebraico. Questo superamento dello schema del ritorno alle fonti della Chiesa antica per un più radicale confronto con le origini di Gesù e del primissimo cristianesimo porterà a una forte divaricazione nella teologia cattolica degli anni Settanta. La strada più radicale fu percorsa ad esempio da H. Küng e E. Schillebeeckx. Di quest’ultimo è esemplare “Gesù, la storia di un vivente” . La particolarità dell’opera non è data solo dalle tesi esegetiche su Gesù, quanto dal fatto di voler fondare una cristologia (la dottrina teologica su Cristo) solo sui dati che la più rigorosa ricerca storica ritiene indubitabili.
Di fronte a questo esito radicale la teologia cattolica degli anni Settanta si divaricò. Si manifestò una reazione opposta che, pur senza negare il rigore della ricerca storica, riteneva necessario e possibile coordinarla con gli orientamenti teologici del magistero ecclesiastico.
Il Concilio Vaticano II aveva aperto la strada al dialogo ecumenico e questo ebbe ripercussioni notevoli nel campo dello studio cattolico della Bibbia. Anzitutto, la produzione esegetica protestante cominciò a circolare all’interno delle facoltà teologiche e dei seminari. In secondo luogo, vennero promosse collaborazioni interconfessionali, non solo per l’edizione critica dei testi originali della Bibbia, e della sua traduzione nelle lingue contemporanee, ma anche al livello dell’interpretazione. Accanto a gruppi di studio e convegni, le società bibliche internazionali divennero i luoghi privilegiati della collaborazione interconfessionale che aveva la sua base, certo, nella volontà di comprensione ecumenica reciproca, ma soprattutto nella condivisione di un comune metodo di analisi: l’esegesi storica.
La teologia divideva, ma l’approccio storico offriva la prima base su cui intendersi. La struttura della Chiesa primitiva, il ministero, l’eucaristia, il battesimo, le basi bibliche per la teologia, divennero argomenti ricorrenti di confronto, esegetico, tra le confessioni.
L’inevitabile incrociarsi della libertà della ricerca storica, dell’esigenza di un uso ecclesiale della Bibbia e dei profondi mutamenti socio-culturali degli anni Sessanta portò in primo piano una serie cospicua di fondamentali questioni: non solo la cristologia, il ministero, ma anche la rivalorizzazione della dimensione sociale della predicazione di Gesù, il ruolo della donna nella Chiesa, la possibilità di distinguere tra un messaggio cristiano elementare e la sua tradizione nella cultura greco-latina, in modo da permettere l’inculturazione del cristianesimo nelle altre culture.
La nascita di movimenti religiosi solidali con le lotte per la giustizia sociale, la conquista delle libertà civili, la liberazione dall’oppressione coloniale portarono a una rilettura del Nuovo Testamento alla ricerca del suo messaggio sociale. È sintomatico che mentre l’esegesi europea degli anni Cinquanta era preoccupata soprattutto di evidenziare il messaggio puramente religioso dell’annuncio cristiano, quasi a voler smentire le pretese politiche delle Chiese, ora ne riscoprisse le dimensioni sociali e l’attenzione ai diritti inalienabili
dei più deboli e dei più poveri.
Il dibattito sulla teologia della liberazione coinvolgeva anche l’esegesi e la teologia biblica. Il movimento femminile si manifestò nella Chiesa cattolica con una critica radicale della lettura maschile dei testi biblici e soprattutto delle concezioni maschili dominanti nella Chiesa, e iscritte nello stesso testo biblico. Si delineavano così due tendenze non sempre contrapposte: l’una tesa a valorizzare il ruolo della donna non negato dalla tradizione biblica, e che però la tradizione ecclesiastica maschile aveva deformato e occultato; l’altra che si esprimeva in una critica alle stesse concezioni antifemminili della Bibbia sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento.
A livello ecclesiale, la protesta femminile si concretò con la richiesta di un nuovo linguaggio, di nuovi ruoli e nuovi spazi, e soprattutto del sacerdozio ministeriale alle donne. Un nuovo straordinario settore della ricerca biblica cattolica si era aperto . Il 27 gennaio 1977 venne resa pubblica la Dichiarazione sopra la questione della ammissione delle donne al sacerdozio ministeriale (Inter insigniores) emanata dalla Congregazione per la dottrina della fede. In essa si escludeva che le donne potessero essere ammesse al sacerdozio. In precedenza, la Commissione biblica era stata richiesta di un parere che fu dato per scritto alla Congregazione per la dottrina della fede. In quel parere, la Commissione riconosceva che nella Bibbia non vi erano elementi che portassero a sostenere l’ammissione delle donne al sacerdozio, ma che tuttavia non vi apparivano neppure motivi che lo impedissero. Si manifestava così un caso di tensione tra esegesi e teologia su uno dei punti più difficili del confronto della tradizione cattolica con l’evoluzione della cultura nel senso antropologico del termine.
Anzitutto, si potenziò enormemente la lettura patristica della Bibbia, ben diversa da quella storica dell’esegesi contemporanea. In secondo luogo, si sostituì sempre di più l’esegesi storica con quella puramente letteraria e narrativa, che studiava ogni singolo testo canonico di per sé eludendo il problema della sua validità come fonte storica. Ciò che importa era comprendere il messaggio e la teologia di ogni singolo Vangelo preso per sé.
Ogni Vangelo del Nuovo Testamento era infatti considerato primariamente come fonte della Parola di Dio e diventava perciò secondario sapere quali fonti avesse utilizzato e se esse erano storicamente attendibili, posto che esso era già riconosciuto dalla Chiesa come fedele testimonianza del messaggio e della rivelazione di Gesù Cristo. Questo tipo di letture cosiddette «sincroniche» dei testi e anche narrative potevano appoggiarsi alla contemporanea scienza della letteratura che – nelle sue molteplici tendenze – valorizzava in modo particolare la necessità teorica di una lettura di ciascun testo nella sua interna struttura letteraria.
In terzo luogo, le critiche della cultura contemporanea alla fiducia positivistica nel metodo storico venivano fatte proprie da un’apologetica letteraria che trovava in esse un modo per liberarsi dal pungolo dell’esegesi storica, accusata di rappresentare solo opinioni soggettive degli storici e degli esegeti. In questo clima anche l’esegesi storica cattolica moderatamente critica della fine degli anni Settanta venne marginalizzata sempre più. E ad essa si sostituì un’ondata di esegesi teologica sostanzialmente apologetica.
Due pubblicazioni apparse una in Francia, l’altra in Italia, potrebbero forse rappresentare sintomaticamente questo passaggio, soprattutto per l’effetto che ebbero successivamente: il saggio «Exégèse en Sorbonne, exégèse en Eglise» (di F.-P. Dreyfus) apparso sulla Revue Biblique alla metà degli anni Settanta e L’esegesi cristiana oggi (a cura di I. de La Potterie). Queste esegesi spirituali o letterarie o narrative oscuravano la percezione della differenza tra Gesù e il suo messaggio da un lato e la Chiesa successiva e le sue trasformazioni dottrinali dall’altro. Mentre le esigenze sociali e rivoluzionarie del Vangelo e la richiesta di un nuovo ruolo delle donne nella Chiesa venivano accantonati e per lo più taciuti.
Certo, i tentativi di ridurre l’importanza dell’esegesi storica a favore di una lettura della Bibbia alla luce della fede della Chiesa non potevano cancellare lo sviluppo delle scienze bibliche nel cattolicesimo, al massimo ebbero l’effetto di isolare sempre di più l’esegesi biblica neotestamentaria cattolica, soprattutto in Italia e nelle facoltà teologiche pontificie romane, dallo sviluppo dell’esegesi internazionale.
Del resto tentativi di ricondurre l’esegesi della Bibbia all’interno di una visione tradizionale di fede e di una dottrina che non mettesse in dubbio il complicato assetto teologico e istituzionale della Chiesa gerarchica, non potevano certo controllare le esigenze religiose profonde della gente o i grandi sommovimenti culturali a livello internazionale.
Il bisogno di rifarsi alla figura storica di Gesù e alla sua prassi rivoluzionaria di vita si era, ad esempio, fatto sentire molto all’interno della teologia della liberazione che vedeva in Gesù un esempio di vita radicale, vicina alla realtà delle centinaia di milioni di poveri.
Si vedano ad esempio i libri di Jose Ramos Regidor, Gesù e il risveglio degli oppressi. La sfida della teologia della liberazione, A. Mondadori, Milano 1981; di Jon Sobrino, Cristologia a partire dall’America latina. Abbozzo a partire dalla sequela del Gesù storico, 1976-77; Gesù Cristo liberatore. Lettura storico-teologica di Gesù di Nazaret, 1991; La fede in Gesù Cristo, 1995.
Rosino Gibellini ha così sintetizzato le idee fondamentali su Gesù della teologia della liberazione: «In sintesi, le principali caratteristiche della cristologia della liberazione sono:
a) la sottolineatura della dimensione storica della salvezza portata da Cristo: la salvezza escatologica passa attraverso liberazioni storiche, anche se non può identificarsi con esse;
b) l’insistenza sulla sequela di Gesù, che mette in atto una ermeneutica prassica, che interpreta non tanto
per comprendere (funzione che rimane pur sempre necessaria e importante), ma soprattutto per praticare: cristologia della liberazione come cristologia della sequela; e finalmente,
c) l’uso di un “sospetto epistemologico”, che intende reagire a diverse scorrette presentazioni del Cristo, che possono facilmente prestarsi ad un uso ideologico da parte dei detentori del potere in America Latina,
in particolare: al Cristo ridotto a “sublime astrazione”, al Cristo presentato adialetticamente come “riconciliazione universale”, alla “assolutizzazione del Cristo” dove va perduta la costitutiva relazionalità di Gesù al regno di Dio, al Cristo vincitore delle cristologie del dominio, o al Cristo vinto delle cristologie della rassegnazione: “Il Cristo astratto, il Cristo imparziale e il Cristo potente sono i simboli religiosi, di cui hanno bisogno e che usano, coscientemente o incoscientemente, i potenti per mantenere il nostro continente
nella sua situazione attuale”; “[…] l’immagine di un Gesù liberatore è ben diversa dal Cristo monarca celeste della pietà dogmatica ufficiale, o dal Cristo vinto e sofferente della pietà popolare”».
Il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, J. Ratzinger, pubblicava però, nel 1984, un’Istruzione che condannava l’interpretazione che la teologia della liberazione dava della figura di Gesù e del suo messaggio. Il Gesù della teologia della liberazione fa parte della storia della ricerca sul Gesù storico della seconda metà del Novecento.Essa nasce dal bisogno di fare appello diretto alla figura di Gesù visto che la teologia della Chiesa e le sue istituzioni e l’interpretazione di Gesù che esse sostenevano non rispondeva ai bisogni religiosi profondi della popolazione povera dell’America Latina. Il fatto che alcune recenti storie italiane la ignorino completamente è molto significativo.
La seconda istanza di questa nuova ricerca su Gesù, a ben vedere strettamente collegata alla prima, fu quella di ritrovare a pieno l’ebraicità di Gesù. Gesù era un ebreo e solo recuperando integralmente il suo essere ebreo, il suo pensare ebreo, il suo vivere ebreo sarebbe stato possibile rientrare finalmente in contatto con lui. Bisognava però liberarsi della mentalità antiebraica delle Chiese, protestanti, cattoliche, ortodosse e altre ancora.
Per secoli le Chiese avevano visto in Gesù il fondatore di un’altra religione, un oppositore ai cardini della religione ebraica. Ma ora qualcosa era successo nella mentalità collettiva di una generazione che permetteva di attingere Gesù nella sua piena ebraicità e questo non era stato possibile neppure alla precedente generazione di esegeti che pur avevano fatto di tutto per liberarsi dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo cristiano.
Cos’era mutato nella concezione del rapporto tra Gesù e il giudaismo? La teologia e l’esegesi cristiana fino a quel momento immaginavano il rapporto del cristianesimo con il giudaismo come un superamento e un contrasto. Secondo questa concezione, Gesù avrebbe fondato il cristianesimo o dato origine ad esso perché da un lato compiva le promesse bibliche inadempiute nel giudaismo e dall’altro superava e aboliva diversi elementi della legge biblica.
Solo se Gesù supera e abolisce il giudaismo, il cristianesimo può nascere. Solo se Gesù supera e abolisce elementi fondamentali della legge biblica come le norme di purità, il sabato, la legge come mezzo di salvezza, il cristianesimo può nascere. Ma, in realtà, le ricerche degli ultimi quarant’anni hanno sempre di più mostrato che la novità, l’originalità di Gesù erano una novità e un’originalità tutta ebraica, che Gesù poteva essere originale e innovativo pur continuando a essere ebreo e pur continuando a muoversi totalmente all’interno della cultura ebraica.
Nella nuova visione, Gesù appare come una persona totalmente all’interno del giudaismo: non ha né superato né infranto la legge biblica, né abolito precetti fondamentali, non ha violato il sabato, ma solo compiuto azioni benefiche e legittime anche di sabato, non ha infranto le leggi alimentari del Levitico, né la concezione della purità biblica, ma soltanto spostato l’accento sulla giustizia, sulla convivialità. Non ha pensato di abolire i sacrifici del tempio di Gerusalemme, ma anzi invitato a eseguirli con maggiore partecipazione morale e spirituale. Non ha pensato di sostituire il tempio di Geruselemme con se stesso, ma sognava un regno di Dio in una terra di Israele rinnovata.
Si diceva ad esempio che Gesù non si fondava sulla Scrittura, ma solo su un’autorità personale, e questo sarebbe sintomo della sua dignità cristologica, del suo potere divino. Ma la nuova ricerca su Gesù dopo gli anni Settanta ha mostrato che questo atteggiamento rientra nella prassi e nelle concezioni della sapienza ebraica e avvicina Gesù alla prassi e alla razionalità dei filosofi della sua epoca.
L’identità di Gesù veniva trovata nel suo rapporto filiale con Dio, inteso come Padre. Si è innumerevoli volte ripetuto che la concezione che Gesù aveva di Dio come «abba» ci illuminerebbe sul suo rapporto di abbandono filiale totale verso Dio, in un’intimità inimmaginabile per qualsiasi ebreo e per qualsiasi cultura e perciò espressione della sua figliolanza divina. Ma anche questo elemento non è apparso veramente dimostrabile e comunque non tale da poter fondare una cristologia.
Si diceva che Gesù predicava l’avvento del regno di Dio, ma che la sua eccezionalità stava nel fatto che il regno già si realizzava in lui, nel suo potere taumaturgico, nella sua autorità rispetto alla Torah e ai discepoli: il regno era già arrivato. Ma la ricerca successiva ha risposto a questo asserto in modi diversi e anzi a volte opposti. Alcuni hanno ritenuto che la predicazione di Gesù non fosse escatologica, ma sovversiva; altri hanno mostrato con facilità che la dimensione escatologica, futura, non realizzata, della regalità di Dio rimaneva centrale e fondamentale anche se si ammetteva che Gesù pensasse che in qualche modo il regno avesse cominciato a manifestarsi nella sua azione.
Si diceva che Gesù aveva radicalmente trasformato il concetto messianico giudaico e a un messia vincitore militare e re avesse sostituito un concetto di messia spirituale, sofferente, destinato alla sconfitta, non politico. Gesù era sì messia, ma avrebbe trasformato radicalmente questo concetto dando perciò origine a una religione ben diversa da quella ebraica. Nella nuova ricerca, invece, viene ampiamente messa in luce la dimensione sociale e politica di Gesù nel contesto dei problemi economici, sociali, politici della sua terra e del suo tempo. La sua pratica di vita aderente alle esigenze sociali concrete è al centro dell’interesse. Gli ideali messianici di Gesù, che sono insieme religiosi e politici, lo radicano profondamente nella cultura giudaica.
In sostanza, se vogliamo operare una semplificazione certamente eccessiva, possiamo dire che spesso, se non sempre, la teologia e l’esegesi cristiana, non solo cattolica, degli anni Settanta cercava di dimostrare che la cristologia dei grandi concili cristologici, Nicea e Calcedonia, e la fede cristologia delle prime Chiese avevano un loro fondamento in Gesù stesso, nelle sue parole e spesso nelle sue azioni. Esse contenevano in germe quello che si sarebbe poi sviluppato in una consapevolezza molto più articolata solo dopo.
Questo procedimento portava gli esegeti e gli storici a ricostruire una storia all’incontrario. Avendo in mente la teologia del IV secolo si cercava di capire quali fattori nel I secolo potevano avere portato a quelle successive formulazioni teologiche e dogmatiche. Era quello che lo storico non dovrebbe mai fare: cercare di legittimare il presente mediante l’invenzione di una storia, di una tradizione.
Si cercava un percorso tradizionale all’indietro partendo dalla convinzione dell’assoluta verità del dogma cristiano che doveva essere legittimato mediante la dimostrazione storica della continuità tra l’oggi e lo ieri, mediante cioè la messa in evidenza di una supposta «tradizione». Tutto ciò è stato radicalmente rifiutato a favore di una ricerca storica e di un’analisi esegetica che non cerca di dimostrare vere le affermazioni dogmatiche della Chiesa successiva.
Certamente le antiche tesi sono rimaste in vigore per moltissimi esegeti e, anzi, si potrebbe dire che gran parte dell’esegesi italiana difende tuttora questa visione delle cose. Il fatto è però che negli anni Ottanta è iniziata una ricerca che ha preso una strada del tutto diversa. In realtà, è sbagliato ricondurre a un’unica corrente il rinnovamento di studi degli ultimi trent’anni. Infatti, una delle personalità più influenti dei nuovi studi, G.Theissen, fu attivo fin dalla metà degli anni Settanta con una serie di libri molto importanti e fortunati, pubblicati in Germania, ma poi influenti in ogni parte del mondo. Il libro del 1985, Gesù e il giudaismo, di E.P. Sanders, è indipendente sia da Theissen sia dalla teologia della liberazione e ha ben poco a che fare con il Jesus Seminar (costituito da un gruppo di esegeti prevalentemente statunitensi) degli anni Ottanta e Novanta. Non vi sono autori o correnti che dominino tutto il panorama.
Non è possibile ridurre tutto a unità né stabilire fasi temporali valide per tutti. L’attenzione alla dimensione concreta, sociale, economica, antropologica delle condizioni di vita in cui Gesù si muoveva ha portato a vederlo come uomo di villaggio, contadino o artigiano che non frequenta le città, portatore di un messaggio di giustizia e di amore e di uno stile di vita lontano dalle élite dominanti cittadine e sacerdotali.
Gesù, infine, è in radicale contrasto con le autorità romane dalle quali viene ucciso come aspirante re dei Giudei per sospetto di ribellione politica.
Questi studi nascono da una profonda conoscenza di almeno quattro fattori.
1) La storia sociale ed economica della terra di Israele e del mondo antico del I secolo, basata anche su una conoscenza accurata delle scoperte archeologiche in terra di Israele.
2) Una conoscenza della realtà del giudaismo in terra di Israele e della diaspora profondamente rinnovata dopo le scoperte di Qumran e degli scavi archeologici.
3) Un’utilizzazione di tutto il materiale letterario protocristiano dei primi due secoli che ha portato a una nuova valutazione delle linee di trasmissione dei materiali di Gesù, parole e azioni, e a una nuova riconsiderazione delle fonti dei Vangeli canonici e non canonici, di una nuova visione dei rapporti reciproci fra i testi protocristiani.
4) Una nuova consapevolezza dei rapporti storici tra seguaci di Gesù ed ebrei nei primi secoli dell’era comune.
Alcuni esempi. Nel 1988 John Dominic Crossan, esegeta cattolico americano, pubblicava un libro dal titolo The Cross that Spoke, in cui cercava di dimostrare che il Vangelo di Pietro permetteva la ricostruzione di un racconto della passione di Gesù che era più antico di quello di Marco. E da cui il racconto della passione premarciano dipendeva come anche ne dipendeva il Vangelo di Giovanni.
Un acceso dibattito si svolse per molti anni, del tutto ignorato dall’esegesi italiana e dal pubblico italiano, che conosce solo la risposta di R.E. Brown, La morte del Messia, ma non la controrisposta di J.D. Crossan Who Killed Jesus?
Crossan negava la storicità di gran parte dei racconti evangelici della passione al contrario di R.E. Brown, che ne sosteneva la fondamentale attendibilità storica. Crossan, semplificando, diceva che per lui i racconti della passione erano per l’80 per cento profezia storicizzata mentre per Brown erano per l’80 per cento storia attendibile interpretata solo parzialmente alla luce della Bibbia.
Questo è solo un esempio per mostrare un fatto di ben più ampia portata: possiamo dire che negli anni Ottanta e Novanta praticamente ogni elemento della trasmissione dei materiali relativi a Gesù – parole e fatti – è stato sistematicamente rimesso in questione circa la sua attendibilità storica.
Questo ha portato a riconsiderare le antiche teorie degli anni venti sulla formazione dei Vangeli. Uno studio sistematico, mai prima avvenuto, è stato fatto sull’ipotetica fonte dei detti di Gesù chiamata Q, che si pensa possa essere ricostruita sulla base delle parti che Matteo e Luca hanno in comune, e che mostrano una forte parentela letteraria fra loro, mentre sono assenti dal Vangelo di Marco.
Questo lavoro sistematico, condotto da un’équipe di studiosi nordamericani e nordeuropei, ha prodotto quella che è stata chiamata The Critical Edition of Q, a cura di James McConkey Robinson, Paul Hoffmann, John S. Kloppenborg. Questo enorme lavoro ha prodotto nuovi strumenti, come sinossi e concordanze, ma anche edizioni e nuove traduzioni di testi protocristiani.
Si deve ricordare che alla metà degli anni Settanta nasce l’Association pour l’étude de la littérature ocryphe chrétienne (Aelac). I lavori prodotti da questo gruppo di studiosi permise un altro importante risultato: quello di comprendere meglio la collocazione storica e perciò anche il valore e i limiti dell’attendibilità dei Vangeli canonici. Essi, anzitutto, appaiono sempre più come momenti di un vasto e diversificato delta di trasmissione dei detti di Gesù.
Ciascuno di essi rappresenta solo un punto di una traiettoria di cui altri testi segnano punti precedenti o successivi. Ci si trovava in una fase nuova della ricerca sulle parole di Gesù in quanto gli studi sulla letteratura copta, siriaca, etiopica (ma anche armena e slava antica) ci permettono di allargare il dossier dei testi. Soprattutto, il compito nuovo che s’impone oggi alla ricerca è quello di superare la barriera tra parole canoniche e parole non canoniche, barriera che ha dato finora luogo a pubblicazioni separate: quelle che si occupano della storia della tradizione sinottica ed evangelica e quelle che si occupano delle parole extracanoniche.
Soprattutto è sempre più diffusa la consapevolezza della pluralità dei primi cristianesimi. I testi protocristiani non sono testimonianza di un cristianesimo generico, ma – ciascuno – di una corrente particolare. La pluralità delle interpretazioni del messaggio di Gesù risultava come un fatto che caratterizzava i cristianesimi fin dall’inizio.
Semplificando: il risultato di questa massa di studi è stato quello di ricondurre la figura di Gesù nel giudaismo del suo tempo, e nelle condizioni socio-economico-culturali di esso e quindi di porre nuovamente in modo chiaro la questione della legittimità e del come della nascita del cristianesimo, posto che Gesù non aveva voluto certamente fondare una nuova religione. Infine, la differenza che nasceva tra il Gesù storico e le Chiese primitive balzava agli occhi. E la pluralità dei diversi gruppi di cristiani metteva ulteriormente in crisi le tesi tradizionali secondo le quali vi sarebbe un’evoluzione coerente da Gesù alla cosiddetta «grande Chiesa».
La reazione ha percorso due strade. La prima, più corretta, ha cercato di controbattere sul piano strettamente esegetico. Prendo ad esempio l’autore forse più serio: James Dunn le cui opere sono state tempestivamente tradotte in Italia.
1) Anzitutto si afferma che i Vangeli canonici hanno la assoluta preminenza rispetto agli altri testi protocristiani, che non possono considerarsi storicamente attendibili e sarebbero quasi sempre posteriori ai Vangeli canonici.
2) In secondo luogo si afferma che i Vangeli sono opere scritte nella fede verso Gesù e che quindi solo un atteggiamento di fede permette un accesso al loro oggetto, Gesù stesso.
3) Si afferma poi che in generale le parole e le azioni attribuite a Gesù sono state tramandate in modo fedele e quindi sono attendibili storicamente perché frutto di un processo di memorizzazione basato sugli stessi testimoni oculari che accompagnarono Gesù, i quali trasmisero i loro ricordi in un contesto di controllo comunitario che ne assicurava la fedeltà.
La seconda tendenza, meno convincente a mio avviso, è consistita nel cercare di screditare la nuova ricerca su Gesù sostenendo che essa si basa sui presupposti filosofici dell’illuminismo, considerato in modo semplicistico come un movimento di radicale opposizione al cristianesimo in quanto tale. Francamente sembra impossibile ricondurre Theissen, Sanders, Crossan e il Jesus Seminar all’illuminismo, che è un complesso fenomeno culturale del XVIII secolo.
Gli storici sanno bene che i fenomeni di oggi vanno spiegati ricorrendo ai fattori del contesto culturale di oggi o immediatamente precedenti. Quanto è avvenuto tra gli anni Settanta del Novecento e il primo decennio del 2000 non può essere spiegato con quanto succedeva duecento anni prima. L’accusa di illuminismo è un modo per gettare sulla ricerca storica su Gesù l’ombra di un atteggiamento antireligioso e anticristiano. In realtà, le cose stanno proprio in modo contrario: la nuova ricerca nasce dal bisogno profondo di un rinnovamento religioso, il bisogno di attingere in modo libero, sincero alle fonti stesse della nostra cultura religiosa: la figura storica di Gesù.
Il fatto che l’attuale ricerca su Gesù sia rappresentata da studiosi di Chiese diverse le une dalle altre sta proprio a significare che l’esigenza di un profondo rinnovamento religioso è radicato nei diversi cristianesimi ed è sintomo di un mutamento culturale. Ciò che è comune a tutti questi tentativi è il bisogno di rimanere all’interno del cristianesimo cercando in Gesù i valori cristiani fondamentali che si fatica a trovare nelle rispettive Chiese; la percezione dell’incapacità delle Chiese di rispondere ai bisogni religiosi della situazione contemporanea; la percezione che la rappresentazione ecclesiastica di Gesù non corrisponde a quello che egli effettivamente fece e disse e a quello che volle essere; la percezione anzi, della dissomiglianza tra il comportamento delle Chiese e quello di Gesù.
In sostanza, il periodo successivo al Concilio Vaticano II ha conosciuto due tendenze. Una ha proposto di portare avanti la riforma iniziata cercando di portare fino in fondo il progetto di ritorno alle fonti, considerato finalmente in modo veramente integrale: un ritorno non più alla Chiesa antica ma a Gesù stesso. Questa esigenza è stata minoritaria. È prevalsa invece la linea che rivaluta le continuità del Concilio Vaticano II con il Concilio diTrento, una linea che ne stempera la novità e ricaccia il cattolicesimo nella situazione di essere senza risposta di fronte ai grandi problemi posti dall’età moderna: come fondare la trascendenza della parola di Dio e di Gesù rispetto alla Chiesa, come ripensare il cristianesimo all’interno della cultura umanistica e scientifica moderna .
FONTE: http://www.mauropesce.net/IT/attachment ... ncilio.pdf" onclick="window.open(this.href);return false;