Come vedere vi è scritta la frase di Es 3,14 ʾehyeh ʾašer ʾehyeh che la didascalia traduce “I am that I am” e che è generalmente tradotta in italiano, anche dalla versione CEI, con “Io sono colui che sono”.
La vista di quest’opera mi ha riportato alla mente che giorni fa avevo deciso di rendervi partecipi delle considerazioni sull’etimologia di Yhwh di cui ho avuto notizia ascoltando il corso del prof. Thomas Römer al Collège de France, e che poi ho approfondito leggendo un suo saggio.
La tesi dell’autore, già ipotizzata da Dio (i.e. Juli_s Well_ausen)[1], è che il termine Yhwh derivi da una radice semitica che tra i suoi significati ha “soffiare”, ma che, significativamente, non si trova attestata con questo significato nella Bibbia ebraica, proprio perché l’uso del termine con questo significato era diventato tabù a causa dell’associazione col dio Yhwh. È infatti semplice accorgersi, tolta la consonante preformante dell’imperfetto, che la radice di Yhwh sia h-w-h e non h-j-h:
Qui le slide riassuntive del corso al Collège de France:
Qui una paginetta tradotta da un suo libro che affronta la questione (traduzione mia):
“L’ipotesi che il nome Yhwh provenga da una forma verbale di una coniugazione a consonanti preformanti resta molto plausibile. Quanto alla radice che si troverebbe alla base di Yhwh sono state avanzate molte proposte. Si è ipotizzato un legame con la radice semitica ḥ-w-y (“distruggere”, in ebraico h-w-h): “Lui distrugge”; Yhwh sarebbe allora un dio distruttore. Un’altra pista potrebbe risiedere nel fatto, sul quale torneremo, che Yhwh viene dal Sud, da un contesto edomita o arabo. Alex Knauf [2], com’è noto, ha fatto osservare che gli arabi pre-islamici conoscevano delle divinità il cui nome è costruito a partire da una coniugazione a consonanti preformanti di un verbo alla terza persona come Yaǵūt (“Lui aiuta”) e Ya῾ūq (“Lui protegge”).[3]
La radice sud-semitica che potremmo mettere in rapporto col tetragramma sarebbe allora la radice semitica h-w-y che ha tre significati: “desiderare”, “cadere” e “soffiare”. I sensi “desiderare” e “cadere” sono attestati anche in ebraico biblico, solo il senso “soffiare” non lo è. Può darsi che si tratti di un evitamento voluto a causa del nome divino. Come ha già sottolineato dal grande biblista Juli_s Well_ausen alla fine del XIX secolo “Er fährt durch die Lüfte, er weht” (Egli attraversa l’aria, egli soffia come il vento) [4]. Questa spiegazione è, probabilmente, allo stato attuale delle nostre conoscenze, la più soddisfacente, benché non sia totalmente esente da problemi.[5] Yhwh sarebbe dunque colui che soffia, che porta il vento, un dio della tempesta che può anche includere aspetti guerrieri, e un dio con una caratterizzazione simile s’applica molto bene, come vedremo, alle funzioni primitive di Yhwh. (Thomas Römer, L’invention de Dieu , Édition du Seuil, Paris, 2014, pp. 49-50)
L’ipotesi di ricollegare Yhwh al soffio del vento è stata in seguito accettata e difesa da Jürgen van Oorschot e Markus Witt [6], B. Duhm[7], R. Eisler[8], Ward [9] W.O.E. Oesterly e T.H. Robinson [10], e T.J. Meek [11].
Non c’è dubbio però che l’autore di Es 3,14 voglia legare etimologicamente Yhwh al verbo “essere”, visto che produce di proposito un accostamento basato su tale gioco di parole. Se l’ipotesi della radice “soffiare” è corretta, quella di Esodo 3 che invece accosta Yhwh col verbo essere sarebbe una paretimologia (ossia di un’etimologia errata):
“Mosè disse a Dio: «Ecco io arrivo dagli Israeliti e dico loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: Come si chiama? E io che cosa risponderò loro?». Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!» (ʾEhyeh ʾašer ʾehyeh). Poi disse: «Dirai agli Israeliti: Io-Sono ( ʾEhyeh ) mi ha mandato a voi». Dio aggiunse a Mosè: «Dirai agli Israeliti: Yhwh , il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione.” (Es 3, 14-15)
Come vedete la divinità prima si auto-designa come “io sono colui che sono”, come “Io sono”, e poi come “Yahweh”. Il tentativo di legare Yhwh al verbo “essere” è evidente.
Ovviamente non fa nessun problema che gli autori dell’Esodo ignorino la vera etimologia di Yhwh (esattamente come gli italiani ignorano l’etimologia delle parole che utilizzano), visto che poteva essere stata dimenticata da tempo (e non sarebbe certo la prima volta che la Bibbia fornisce etimologie senza fondamento storico, come l’idea che isha (donna) derivi da “ish”(uomo) (Gn 2,23), l’idea che Mosè voglia dire “salvato dalle acque” (Es 2,10), o l’idea di Gn 11,9 che Babele significhi “confusione”).
O forse conoscevano la vera etimologia, ma hanno scelto di attuare un libero gioco di parole che noi prendiamo troppo sul serio.
Ciò che è certo è che grazie a questa paretimologia è nata quella che il grande storico della filosofia medievale É. Gilson chiamava “la metafisica dell’Esodo”, ossia una qualche forma di identificazione di Dio con l’Essere. Questa paretimologia ha anche permesso all’autore del Vangelo di Giovanni mettere in bocca a Gesù in Gv 8.58 un’autoidentificazione con Yhwh così come presentato da Es 3,14 nella LXX («In verità, in verità vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono»).
È importante specificare che l’autore di Giovanni voglia riallacciarsi alla LXX perché è questa versione che trasforma la frase di Yhwh in una dichiarazione di atemporalità. Infatti i LXX rendono ʾehyeh ʾašer ʾehyeh con Ἐγώ εἰμι ὁ ὤν (ego eimi ho on). Dove ὁ ὤν (ho on) è la forma sostantivata del participio di “essere”, e si traduce con “l’Essente” o “Colui che è”. Quindi “io sono l’Essente”, o “io sono Colui che è”.
L’obiezione, in vero non molto profonda e ragionata, che il nome divino in Es 3,14 è ὁ ὤν (ho on) e non Ἐγώ εἰμι (ego eimi), è priva di fondamento.
Gesù in Gv 8,58 non poteva usare per auto-identificarsi col Dio di Es 3,14 la locuzione “ὁ ὤν” (l’essente), perché altrimenti la frase sarebbe rimasta senza soggetto e Gesù non avrebbe più parlato di se stesso. La frase sarebbe infatti diventata. “Prima che Abramo fosse, l’Essente”. Che non vuol dire niente ovviamente, e non si sarebbe neppure capito che Gesù parlava di se stesso. Allora l’evangelista usa un’altra strategia: siccome legge Es 3,14 come una dichiarazione dell’eterno presente di Dio, infila di proposito un errore nella consecutio temporum della frase.
In italiano, esattamente come in greco, se ci si vuole limitare a dire che si esisteva prima di qualcuno, si usa l’imperfetto. Se il senso che l’evangelista voleva trasmettere fosse stato questo, egli avrebbe semplicemente scritto “Prima che Abramo fosse, io c’ero” (o in greco πρὶν Ἀβραὰμ γενέσθαι ἐγὼ ἦν). Infatti quando in passato ho interloquito con dei TdG, difensori dell’erronea traduzione “io ero”, non ho mai ottenuto una spiegazione soddisfacente del perché, secondo loro, se l’autore del Vangelo avesse davvero voluto dire quello che dicono loro non abbia usato un comodo imperfetto). Invece in greco quel “ego eimi” al presente è spiazzante esattamente come lo è in italiano, e fa il medesimo effetto. Il Gesù Giovanneo non vuol dire che lui c’era, ma che lui È.
Questa esegesi ovviamente non è una creazione dei moderni, ed è classica anche nei Padri della Chiesa, che ben hanno visto il legame con Es 3,14. Tra i più importanti citiamo almeno Agostino e Giovanni Crisostomo:
E Giovanni Crisostomo nella sua omelia LV sul Vangelo di Giovanni scrive:Adirati i Giudei risposero: Non hai ancora cinquant'anni, e hai veduto Abramo? E il Signore: In verità, in verità vi dico: prima che Abramo fosse, io sono (Gv 8, 57-58). Pesa le parole e intendi il mistero. Prima che Abramo fosse: fosse si riferisce alla creatura umana; sono si riferisce alla divina essenza. Fosse, perché Abramo era una creatura. Non disse il Signore: Prima che Abramo esistesse, io ero; ma disse: Prima che Abramo fosse fatto - e non poté esser fatto se non per mezzo di me -, io sono. Neppure disse: Prima che Abramo fosse fatto, io sono stato fatto. In principio - infatti - Dio fece il cielo e la terra; e in principio era il Verbo. Quindi, prima che Abramo fosse, io sono. Riconoscete il Creatore, non confondetelo con la creatura. Colui che parlava era discendente di Abramo; ma perché potesse chiamare Abramo all'esistenza, doveva esistere prima di lui. (Agostino, Commento al vangelo di Giovanni, 43, 17)
Questa citazione di Giovanni Crisostomo è deliziosa per svariati motivi. Il primo è che si tratta di un autore madrelingua greco (e che madrelingua! Non a caso lo chiamano “bocca d’oro” per la sua capacità di utilizzare il greco). Il secondo motivo è che questo madrelingua dà per scontato che un lettore grecofono non possa capire quello che invece i TdG sostengono si debba intendere in Gv 8,58. Vale a dire che, proprio perché “ego eimi” (io sono) ed “ego en” (io ero) in greco sono due cose diverse, il Crisostomo, che ovviamente legge e capisce “io sono”, si chiede come mai Gesù non abbia detto “io ero” se avesse voluto intendere quello lui c’era all’epoca di Abramo (il che è invece quello che i TdG credono Gesù abbia detto e intendesse). Il nostro autore invece dà per scontato, e infatti chiede retoricamente ai lettori, come mai Gesù non si sia limitato a dire che prima di Abramo lui “c’era”, e invece abbia scelto proprio “io sono”, che non significa “io ero”. Questa citazione di un madrelingua mi sembra da sola più importante di tutti gli esegeti moderni malamente scopiazzati (e quasi mai compresi) che i TdG , che il greco non lo sanno, affastellano per cercare di picconare la propria resa.“Ma perché mai Gesù non ha detto “Prima che Abramo fosse, io ero” [ἐγὼ ἤμην] anziché “io sono” [ἐγὼ εἰμί]?[13] Come il Padre, per farsi conoscere, si è servito di questa espressione “io sono” [εἰμί], così fa anche Cristo. Questa parola significa che egli è eterno, senza fissare nessun tempo particolare. Ecco perché i giudei considerarono questa parola come blasfema. Se non poterono tollerare una comparazione che Egli fece con Abramo, sebbene essa non fosse così grande, non è evidente che essendosi Egli fatto spesso uguale al Padre non avrebbero mai cessato di gettargli pietre?” (Giovanni Crisostomo, Omelie su Giovanni, 55, 324)
Un altro motivo per cui questa citazione del Crisostomo è di capitale importanza è che nel punto in cui afferma che Gesù si è definito come il Padre, ossia “ego eimi”, per parlare di Es 3,14 Crisostomo non dice che Dio lì Yhwh si sia definito “ho on” ma che si è definito “eimi” .
Insomma, Crisostomo ci sta dicendo che in Es 3,14 Dio s’è definito “eimi”, sebbene nella LXX ci sia scritto invece “ho on”, segno che, come v’ho sopra spiegato, le due formula per lui sono equivalenti perché “ego eimi” usato in forma assoluta dà la stessa idea di atemporalità: «“il Padre, per farsi conoscere, si è servito di questa espressione “io sono” [eimi]».
L’idea dunque che il richiamo all’Es 3,14 di Gv 8,58 sia solo un’illusione creata dalle traduzioni odierne, un’illusione percepibile solo in italiano qualora si scelga di rendere i due versetti con “io sono”, è priva di fondamento: anche in latino, ma soprattutto in greco, dove i due versetti venivano letti in originale, il parallelo veniva percepito, questo perché l'ho on dei LXX e l'ego eimi di Gv, se messo in quella posizione isolata e dopo πρὶν γενέσθαι, significano esattamente la stessa cosa, danno la stessa idea di atemporalità.
Né ovviamente ha senso citare gli altri casi di “ego eimi” nel Vangelo di Giovanni per depotenziare quello di Gv 8,58: non si vede cosa c’entrino. Se c’è scritto da qualche nei Vangeli parte “io sono la porta” in questo caso “sono” è la copula di un predicato nominale, ma il verbo essere di Gv 8,58 non è affatto una copula, infatti in Gv 8,58 essere ha funzione verbale e non copulativa, significa “esistere”, e non c’entra nulla cogli altri predicati nominali, anche perché la sua particolarità è di essere isolato.
Per riassumere l’autore del Vangelo di Giovanni trasforma il nome divino “ho on” della LXX nell’ “ego eimi” di Gv 8,58 sia perché sarebbe stato impossibile usare “ho on” in quella frase senza perdere il soggetto, sia perché “ego eimi” all’interno di quella volutamente errata consecutio temporum del versetto esprime esattamente lo stesso concetto di “ho on”, ossia l’eternità del presente e la non relatività (passata o futura) rispetto ad altri eventi della storia.
Il predicato “ho on” della LXX nel costrutto “ego eimi ho on” non poteva che diventare, in Gv 8,58, un ego eimi, usato in contrapposizione con πρὶν Ἀβραὰμ γενέσθαι (prin Abraam genesthai).
L’autore del Vangelo di Giovanni dunque trasuda di filosofia, e proprio per questo ci è tanto caro, anche se qualche minus habens è convinto che la Bibbia con gli influssi della filosofia ellenistica non abbia nulla a che fare, come fosse un’isola in mezzo al deserto e gli autori del testo sacro fossero stati ignoranti e chiusi di mente come alcuni attuali settari odierni che si fanno il segno del palo appena sentono la parola “filosofia”. Se volete comprendere la teologia giovannea aprite il Fedone del divino Platone o tacete!
Ad maiora
NOTE AL TESTO:
[1]I trattini bassi sono strati aggiunti da me per rispetto al Nome del Nume tutelare dei filologi biblici.
[2] Ernst Alex Knauf, «Yahweh», Vetus Testamentum, 1984, p. 467-472.
[3] Questi due nomi sono attestati nel Corano e nel Kitāb al-aṣnām (Il libro degli idoli) nel quale Hicham ibn al-Kalbi (737-819) parla degli idoli arabi del periodo pre-islamico.
[4] Juli_s Well_ausen, Israelitische und Jüdischw Geschichte, Berlin, Georg Reimer, 1914, p. 25, n.1.
[5] Nel mondo semitico antico i nomi divini costruiti con coniugazioni a preformanti sono molto rari.
[6] Jürgen van Oorschot, Markus Witte, The Origins of Yahwism, Walter de Gruyter Berlin, 2017, p. 75.
[7] B. Duhm, Israels Propheten, Mohr, Tubingen, 1916, p. 34.
[8] R. Eisler, "Orientalische Studien," MVAG 22 (1917) p. 36.
[9] W. H. Ward, The Origin of the Worship of Yahwe, AJSL 25 (1925) 175-87.
[10] W. O. E. Oesterly and T. H. Robinson, Hebrew Religion: Its Origin and Development, SPCK, London, 1937, p. 153.
[11] T. J. Meek, Hebrew Origins, University of Toronto Press, Toronto, 1950, pp. 99-102.
[12] Riporto il brano di Es 3,14 traducendo ʾehyeh come fa la LXX con “Io sono”. Si sente spesso dire che il verbo essere al “presente” non esisterebbe in ebraico. Che tempo è dunque ʾehyeh? Secondo una teoria grammaticale (più diffusa in passato che oggi) l’ebraico biblico non ragionava in base al nostro concetto di “tempo”, ma in base al cosiddetto “aspetto” del verbo. I verbi ebraici secondo la “teoria aspettuale “anziché collocare un evento nel tempo, dicendoci se è esso è “prima”, “contemporaneo” o “successivo” a qualche altro evento, ci direbbero invece se l’azione è “compiuta”, “momentanea”, “durativa”, o “progressiva”, ecc. indipendentemente dalla sua collocazione nel tempo.
Seguendo questa teoria, alla quale per altro io non credo granché, molte grammatiche chiamano il verbo usato in Es. 3,14 un “imperfetto”, perché etimologicamente in latino “imperfetto” significa “non compiuto” (il contrario “perfectus” significa “finito”\”compiuto”).
Altre grammatiche invece lo chiamano “futuro”, perché in ebraico moderno, che ha un uso dei tempi abbastanza diverso da quello biblico, questo “tempo” è usato per il futuro. A me sia la traduzione “imperfetto” che quella “futuro” paiono inadeguate, e preferisco dire, utilizzando il nome ebraico, che si tratta di un yiqtol. Dell’yiqtol biblico, lasciando da parte la teoria aspettuale del verbo ebraico, possiamo dire che può indicare sia “contemporaneità sia posteriorità, ossia presente e futuro” (D. Mittler, Grammatica ebraica, Zanichelli, Milano, 2000, p.141).
Si capisce dunque bene che la resa della LXX, della Vulgata, e della stragrande maggioranza delle Bibbie moderne con “io sono” sia pienamente legittima e forse addirittura da preferirsi al futuro (io sarò), che invece viene soprattutto da un’interferenza col senso più ristretto che questo tempo ha assunto nell’ebraico moderno.
Una ragione forte per tradurre col presente è che nella seconda parte del versetto 14 ʾEhyeh viene trattato come un nome proprio di Dio: “Poi disse: «Dirai agli Israeliti: Io-Sono ( ʾEhyeh ) mi ha mandato a voi»”.
Ora, se ʾEhyeh è uno dei nomi di Dio, nella frase precedente la copula (ossia il primo ʾehyeh) va tradotto senz’altro col presente. Infatti se ci chiedono qual è il nostro nome, l’unica risposta sensata è data al presente, e non al futuro. Non ha senso rispondere alla domanda: “come ti chiami?” dicendo “io sarò Marco”, ma solo “io sono Marco”. Se dunque ʾEhyeh è un nome proprio, allora il primo ʾehyeh, sarebbe reso meglio con un presente. Ovviamente non ha senso l’obiezione che in ebraico non esisterebbe il verbo essere al presente. In ebraico (almeno quello biblico) non esiste il presente di nessun verbo, perché il presente non esiste, così come non esiste il futuro, si tratta infatti di categorie della grammatica latina appicciate malamente all’ebraico. E siccome, come già visto sopra, l’ yiqtol può anche esprimere contemporaneità, nulla di scandaloso nel dire che possa essere tradotto con un “sono” inteso come copula. Copula significa “unione”/”legame”: in una frase come “Io sono bello” il termine “io” è il soggetto, “bello” è il “nome del predicato”, e “sono” è la copula, ossia ciò che “unisce”, perché lega le due parole (il soggetto e il nome del predicato).
Nella nostra frase di Es 3,14 dunque dunque “ʾehyeh ʾašer ʾEhyeh” il primo ʾehyeh fa da copula, e il secondo da nome del predicato (infatti lo scrivo con la maiuscola). Ci si potrebbe chiedere dove stia il soggetto, visto che la copula, se deve legare, dovrebbe legare due elementi, e la risposta è che il soggetto è sottinteso perché il fatto che si tratta di una prima singolare nell’yiqtol si capisce già da come è coniugato il verbo.
Si può dunque dire che in ebraico la copula esista anche nel presente [visto che il presente è una delle possibili traduzioni approssimative dell’yiqtol che non è propriamente né un presente né un futuro], e questo perché sebbene anche gli studenti alle prime armi sappiano che per dire “Io sono Marco” si può scrivere “io Marco” (ani Marco), nulla vieta che possa esistere il verbo “essere” come copula in altri “tempi” ebraici (come l’yiqtol) che possono corrispondere anche al nostro presente, qualora l’autore biblico volesse esprimere un valore imperfettivo del verbo.
L’idea che in ebraico non esista la copula è dunque priva di fondamento o per lo meno un’approssimazione semplificativa per studenti alle prime armi che si potrebbe trovare in un manuale introduttivo. Infatti, esattamente come in italiano, il predicato nominale si può formare col verbo essere in qualsiasi tempo. In “Marco era biondo” il verbo “era” è la copula. Dunque in ebraico, in cui il verbo essere esiste al tempo yiqtol, tale verbo può essere usato come copula.
Anche la frase “in ebraico non esiste la copula al presente” risulta errata o per lo meno approssimativa, perché troppo pensata con categorie latine, infatti in ebraico il “tempo presente” non esiste per nessun verbo (come il “tempo futuro” del resto), in compenso, siccome l’yiqtol è traducibile anche col presente, si può dire, utilizzando le già suddette imprecise categorie latine, che esiste il verbo “essere” in ebraico al presente con funzione copulativa. Intendendo con ciò dire solamente che esiste un costrutto con l’yiqtol, la cui traduzione può essere un presente italiano, in cui il verbo essere ha funzione copulativa.
[13] Nota per grecisti: la forma ἤμην è un imperfetto alternativo di εἰμι che si affianca al classico ἦν. Già attestato dal IV secolo a.C. in autori come Lisia e Senofonte, ricorre spesso nel nuovo nel NT (es. Gv 16,4).