Ancora sull'inno ai filippesi 2

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Mario70
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Re: Ancora sull'inno ai filippesi 2

Messaggio da Mario70 »

Nel frattempo che Valentino ti risponda, non ho mai letto nulla riguardo a presunte interpolazioni di Flavio riguardo i Farisei, ma solo riguardo a Gesù e mi sembra cosa pacifica data l'influenza della Chiesa e non vedo cosa gliene importasse alla chiesa che i Farisei credessero nell'immortalitá dell'anima al punto da voler interpolare Flavio.
Del resto i Farisei discendono dai Maccabei ed è indubbio che nei libri che riportano la storia dei Maccabei sia scontata la credenza dell'anima immortale così come negli altri libri della Sapienza e dl Siracide tutti presenti nella LXX che i cristiani adoperavano.
Per quanto riguarda il verbo perire ( apolesai) la sua etimologia permette anche il pensiero di punire, rovinare, presente anche in altri testi dove è implicita una sofferenza (pianto e stridor di denti) e dai quali venne fuori il concetto di punizione eterna, ma a noi interessa la dicotomia tra anima e corpo la quale non avrebbe senso se fosse un tutt'uno, e dal fatto che solo il corpo può essere ucciso (apokteinai) per mano umana, mentre l'anima la può far perire solo Dio.
Infine la parabola del ricco e del Lazzaro non avrebbe senso senza il presupposto dell'anima immortale.
Non hai ancora risposto riguardo a quale sarebbe una alternativa diversa da quella esposta dalla dottrina trinitaria riguardo le due nature, se non accetti il discorso dell'unione ipostatica tra Gesù Dio e Gesù uomo, che alternativa proponi?
"La cosa più triste è che molto spesso chi viene ingannato, o illuso, tende a rimanere strettamente ancorato a quello in cui crede nonostante le evidenze indichino chiaramente che la realtà è diversa. Forse è talmente affezionato alle sue credenze che preferisce chiudersi gli occhi e tapparsi le orecchie di fronte a qualunque cosa possa farle vacillare."
(Torre di Guardia 1/9/2010 p 10)
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Vieri
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Re: Ancora sull'inno ai filippesi 2

Messaggio da Vieri »

Ciao GioGian, due sole cose:
Scrivi:
Dubito vivamente che Paolo credesse nell'immortalità dell'anima.
Se ti può interessare
Teologia. Su anima e corpo san Paolo batte i Greci
https://www.avvenire.it/agora/pagine/an ... te-i-greci
seconda cosa trovo:
Il passo di Mt 10,28 non definisce essa immortale, dato che può perire. 
Onestamente dalle parole del Vangelo leggo proprio il contrario :
Il corpo muore ma l'mima no....
Matteo 10:28-33
28 E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l'anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l'anima e il corpo nella Geenna. 29 Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure neanche uno di essi cadrà a terra senza che il Padre vostro lo voglia.
30 Quanto a voi, perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati; 31 non abbiate dunque timore: voi valete più di molti passeri!
32 Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; 33 chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch'io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli.
PS: rileggendo l'appunto di Mario:
Non hai ancora risposto riguardo a quale sarebbe una alternativa diversa da quella esposta dalla dottrina trinitaria riguardo le due nature, se non accetti il discorso dell'unione ipostatica tra Gesù Dio e Gesù uomo, che alternativa proponi?
Se Gio Gian dice di essere trinitario dovrebbe pertanto riconoscere che Gesù sia stato "vero Dio e vero uomo" in questa unione ipostatica.
Saluti
Presentazione
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Vieri
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Re: Ancora sull'inno ai filippesi 2

Messaggio da Vieri »

Mario che è intellettualmente molto onesto ammette anche :
come avrai notato è tutt'altro che pacifica [la comprensione di questo passo], perché ci sono dei termini non proprio semplici da tradurre, come sai i lemmi cambiano significato in pochi decenni, cambiano in base alla teologia propria di chi legge ecc... in base a come si traduce morphe (forma o natura o immagine [di Dio] ), arpagmos (rubare o tenere stretta [l'uguaglianza di Dio] ), omoiomati (somiglianza o simile o d'aspetto [d'uomo]) skemati (apparenza o condizione esteriore o somiglianza [umana]).
Per farti capire la difficoltà traduttiva ti faccio il solo esempio di arpagmos:

1) Senso attivo, «non reputò un furto, una usurpazione, una rapina» il suo essere come Dio,
appunto perché ne era in legittimo possesso; così i padri latini;

2) Senso passivo in diverse sfumature:

a) cosa rubata – quindi da custodire gelosamente, da non cedere;

b) cosa da rubarsi – con idea di violenza e di usurpazione, come avvenne da parte di Adamo;

c) cosa da conservarsi (senza nessuna idea di ingiusto possesso), nel senso lato di “prendere per se, usufruire, usare a proprio vantaggio”.

Vieri TUTTE queste traduzioni sono plausibili, é chiaro fino a qui?
Se prendessimo il passo in questione senza considerare il contesto in cui fu scritto, chi lo scrisse, la teologia propria dello scrittore, tutte queste traduzioni andrebbero bene e stiamo parlando di una sola parola, capisci la difficoltà nel tradurre l'intero passo o no?
Mario carissimo, è inutile che mi convinca sul fatto che questi passi sia del Vangelo che delle lettere di Paolo abbiano delle difficoltà di traduzione e di relativa interpretazione che dipende sempre da chi esamina e traduce questi testi, oltre al periodo storico nel quale furono scritti.

Dato che ho sempre ritenuto che sono sempre esistite questa difficoltà, ritengo decisamente pretestuoso ed inopportuno pensare che SOLO l'opinione di alcuni recenti professori universitari possano essere ritenuti senza se e senza ma la verità assoluta su questa terra non lasciando spazio ad altre opinioni discordanti definite sempre come omelie o "catechismo".

In un dialogo ritengo che si debbano esprimere giustamente le proprie ricerche e riferimenti ma mai atteggiarsi sempre a detenere la verità assoluta ( tra l'altro di uomini...) ,

Mario scrive ancora:
Andiamo al testo in questione:

Hos il quale
en in
morphē forma (rese possibili: immagine, condizione o natura)
Theou del Dio
hyparchōn esistendo
ouch non
harpagmon rapina (rese possibili: impadronirsi, afferrare con la forza, saccheggiare, trattenere per sé)
hēgēsato consideró
τὸ einai l'essere
Isa uguale (altre rese: come, simile)
Theō al Dio

Quanto sopra è la traduzione interlineare.

Quindi posso intendere questo passo cosi:

Il quale essendo anche lui a immagine di Dio [come lo era Adamo], non consideró di rapinare l'uguaglianza con Dio [farsi uguale a Dio) [come invece fece Adamo]
In questa maniera non c'è bisogno di preesistenza.


Se invece lo rendo così :

Il quale anche se esisteva nella condizione di Dio, non volle aggrapparsi (rimanere stretto) a questa condizione nell'essere come Dio.

Entrambe le traduzioni sono possibili ma la prima rispecchia il pensiero di Paolo.
Grazie per la forbita spiegazione ed in effetti possono avere questa doppia interpretazione ma la seconda, per ovvie ragioni, mi convince naturalmente di pIù.... :sorriso:
Un saluto
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Re: Ancora sull'inno ai filippesi 2

Messaggio da Valentino »

GioGian ha scritto: 20/01/2024, 1:47sul fatto che i farisei credessero nell'immortalità dell'anima e non semplicemente nell'anima chiederei il parere di Valentino, se ci fa questa cortesia, perché Giuseppe Flavio a volte è pasticcione e a volte, purtroppo, è stato interpolato successivamente.
Nel caso specifico le interpolazioni non c'entrano.
Piuttosto è vero che in Giuseppe Flavio si riscontrano omissioni ed ambiguità: per esempio comprensibilmente Giuseppe Flavio parlando dei Farisei evita di soffermarsi sulle loro speranze messianiche per questioni di opportunità politica. Se cerchi di relazionarti positivamente con i romani non ti metti a puntualizzare speranze messianiche.
Bisogna anche considerare le sue difficoltà a tradurre nelle categorie culturali romane il multiforme pensiero religioso dei vari ebraisni esistenti.
Secondo l'enciclopedia Judaica (del 1908, dunque non aggiornatissima), si legge:
But it was not the immortality of the soul which the Pharisees believed in, as Josephus puts it, but the resurrection of the body as expressed in the liturgy.

Ma non era l'immortalità dell'anima quella in cui credevano i farisei, come dice Giuseppe Flavio, ma la risurrezione del corpo come espresso nella liturgia.

https://www.jewishencyclopedia.com/arti ... es#anchor7

Diciamo che la questione non era sistematizzata in maniera univoca. Ci sono sempre state opinioni diverse a riguardo a fronte del fatto che fossero tutti d'accordo sulla questione resurrezione.
Ultima modifica di Valentino il 20/01/2024, 21:00, modificato 3 volte in totale.
illustri autori quali E.P. Sanders, Geza Vermes, Dale Allison, Paula Fredriksen e tanti altri [...] su un punto concordano tutti:
Gesù non trascorse il suo ministero a proclamarsi divino.
B. Ehrman

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Re: Ancora sull'inno ai filippesi 2

Messaggio da Valentino »

Caro Mario, tornando a Filippesi, per molto tempo si è sostenuto, pur in assenza di basi grammaticali solide, che l'infinito articolato in Filippesi 2:6 segnalasse un'anafora. Denny Burk si è preso la briga, nella sua dissertazione per il dottorato, di analizzare tutti gli oltre 320 infiniti articolati del nuovo testamento stabilendo che il "TO", ovvero l'articolo davanti al verbo einai, non indica un'anafora ma funge da marcatore sintattico nelle costruzioni con doppio accusativo, per cui μορφῇ θεοῦ e τὸ εἶναι ἴσα θεῷ non sono espressioni sinonime ma hanno significati distinti, e ciò implica che arpagmos si deve intendere come "res rapienda" non come "res rapta".
illustri autori quali E.P. Sanders, Geza Vermes, Dale Allison, Paula Fredriksen e tanti altri [...] su un punto concordano tutti:
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Re: Ancora sull'inno ai filippesi 2

Messaggio da GioGian »

Mario70 ha scritto: 20/01/2024, 11:54 Nel frattempo che Valentino ti risponda, non ho mai letto nulla riguardo a presunte interpolazioni di Flavio riguardo i Farisei, ma solo riguardo a Gesù e mi sembra cosa pacifica data l'influenza della Chiesa e non vedo cosa gliene importasse alla chiesa che i Farisei credessero nell'immortalitá dell'anima al punto da voler interpolare Flavio.
Del resto i Farisei discendono dai Maccabei ed è indubbio che nei libri che riportano la storia dei Maccabei sia scontata la credenza dell'anima immortale così come negli altri libri della Sapienza e dl Siracide tutti presenti nella LXX che i cristiani adoperavano.
Per quanto riguarda il verbo perire ( apolesai) la sua etimologia permette anche il pensiero di punire, rovinare, presente anche in altri testi dove è implicita una sofferenza (pianto e stridor di denti) e dai quali venne fuori il concetto di punizione eterna, ma a noi interessa la dicotomia tra anima e corpo la quale non avrebbe senso se fosse un tutt'uno, e dal fatto che solo il corpo può essere ucciso (apokteinai) per mano umana, mentre l'anima la può far perire solo Dio.
Infine la parabola del ricco e del Lazzaro non avrebbe senso senza il presupposto dell'anima immortale.
Non hai ancora risposto riguardo a quale sarebbe una alternativa diversa da quella esposta dalla dottrina trinitaria riguardo le due nature, se non accetti il discorso dell'unione ipostatica tra Gesù Dio e Gesù uomo, che alternativa proponi?
Valentino ci ha risposto e lo ringrazio.
Su Giuseppe Flavio avete ragione e mi sono espresso in maniera troppo sbrigativa; su di lui in effetti penso esattamente quello che dite voi.
Sulla questione che il segno di Giona non possa essere un sacrificio umano, nelle intenzioni di Gesù, mi pare che anche voi diate la cosa per ragionevole.
La parabola del ricco e del povero Lazzaro è uno degli esempi di quanto fosse creativa l'intelligenza di Gesù. Lazzaro è Eliezer in ebraico, perciò quell'Eliezer di Damasco che è rimasto diseredato, avendo avuto Abramo i suoi eredi. Alla fine però proprio lui è nel seno di Abramo. Il Maestro sta parlando di sé. I cani sono quelli non circoncisi, il ricco è Israele, che alla fine geme sempre per sete di giustizia e a cui basterebbe un dito di verità, i figli del ricco i sacerdoti e quanti si sentono legittimi padroni di Israele: "se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi". Ovvero, se non capiscono quale è la loro vera eredità, non capiranno neanche chi è il vero Erede.
Anche per rispetto per Vieri, cioè affinché si possa focalizzare meglio il tema dell'anima, diciamo qualcosa di aggiuntivo.
Il passo di Matteo che citate ci dice in merito (dice molte cose, ma del merito dice) soltanto che, come ovvio, i risorti dai morti avranno un'anima, la stessa nostra anima, e che non dobbiamo rischiare che questa vada in perdizione. Colui che nel suo oggi sarà con il Maestro in paradiso è lo stesso che oggi, purtroppo, morirà sulla croce con Lui. Nessuno gli vuole perciò dare la pena aggiuntiva di stare imbambolato per 10.000 anni ad aspettare giorno per giorno l'oggi di allora, quando risorgerà.
Naturalmente non è che i sadducei, che non credevano all'anima, non dicevano "io" come tutti noi. Semplicemente non credevano al libero arbitrio dell'io, ciò che i farisei chiamano anima. Perciò per i farisei le opere della Legge sono meritorie, in quanto l'anima ci garantisce del nostro libero arbitrio nel compierle o non compierle. Per i sadducei il fatto che, ad esempio, Dio indurisca il cuore del faraone, dimostra che non esiste il libero arbitrio, ed ogni nostra opera, buona o cattiva, viene da Dio.
La definizione di Maimonide è splendida: "intelletto sviluppato senza sostanza". Per adesso con lui fermiamoci al fatto di dire che noi non sappiamo dire se il nostro "io" produca i pensieri, e perciò le azioni, o se esso sia semplicemente "ciò" di cui parlano i nostri pensieri, pur con sviluppata disciplina. In ogni caso "non è sostanza". Perché, per essere metafisicamente "libero", dovrebbe essere creato direttamente da Dio e invece è creato da noi, con l'educazione e lo sviluppo dell'intelletto.
Per essere immortale, a maggior ragione dovrebbe invece essere "intelletto sviluppato da una sostanza", non solo creata direttamente da Dio, ma creata per essere immortale. Cosa che esula del tutto dalla diatriba farisei-sadducei, anche perché non avrebbe nessuna base scritturale. Da nessuna parte è scritto che Dio comunichi il proprio spirito, come aveva fatto con lui, ai figli di Adamo nella pancia di Eva, ma piuttosto che loro sono a somiglianza di Adamo, mortali come lui.
Da nessuna parte si dice che ci sia qualcosa in noi che non ci discende dai nostri genitori. Chi diceva questo erano i neoplatonici, ma perché per loro l'intero mondo è finto, compresi i genitori (di cui sono vere solo le anime). L'anima deriva per processione dagli Eoni, emanando in vari passaggi dall'Uno. Come facevo dire io a Paolo, "si autoassolvono da soli", si dicono da soli di piacersi, il che significa pure che, in senso paolino, si autoeliminano da soli, perché "si condannano da soli all'inesistenza". Per uno come Paolo ciò di cui costoro vanno parlando è inesistente nel suo intero e nel suo dettaglio, dove per dettaglio leggasi anima immortale.
Per evitare il problema del clone, a questo punto vi invito a porvi questa domanda (ma non consideratela una sfida, voglio solo evitare di scrivere cose troppo lunghe e noiose). Messo a parte Elia, perché lo sappiamo messo a parte, durante la Trasfigurazione, tra il Maestro (mi perdoni egli l'ardire) e Mosè, chi dei due è un clone per l'altro? O a En-Dor, perché si spaventa l'evocatrice di spiriti?
Sulla Trinità ci tornerò, ok, ma ogni mia considerazione parte dall'ovvietà che tu rettamente chiami unione ipostatica. Solo che l'incarnazione, cioè il concepimento verginale di Maria, non è un fatto economico, ma un fatto detto per essere inteso come vero, il che è diverso. Il problema economico si pone solo perché si dipingono come contemporanei il suo concepimento e la creazione dell'anima immortale di Gesù. Fin qui ci siamo occupati di questo, appunto. Perché sennò Gesù sarebbe morto per finta.
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Vieri
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Re: Ancora sull'inno ai filippesi 2

Messaggio da Vieri »

Buona domenica Mario !
Grazie per le tue spiegazioni che alla fine mi fai ragionare, fare delle ricerche e "stranamente" per un agnostico, farmi essere anche più convintamente cattolico. :sorriso:

Nonostante la mia ignoranza di greco mi piace però andare a fondo di questi passi di Paolo

ὃς ἐν μορφῇ θεοῦ ὑπάρχων οὐχ ἁρπαγμὸν ἡγήσατο τὸ εἶναι ἴσα θεῷ,
ὃς il quale
ἐν in
μ forma (rese possibili: immagine, condizione o natura)
θεοῦ del Dio
ὑπάρχων  esistendo
o οὐχ  non
ἁρπαγμὸν rapina (rese possibili: impadronirsi, afferrare con la forza, saccheggiare, trattenere per sé)
hēgēsato  consideró
τὸ εἶναι l'essere
ἴσα uguale (altre rese: come, simile)
θεῷ  al Dio
Le tue due versioni tradotte:

La prima:
Il quale essendo anche lui a immagine di Dio [come lo era Adamo], non consideró di rapinare l'uguaglianza con Dio [farsi uguale a Dio) [come invece fece Adamo

In questa maniera non c'è bisogno di preesistenza.
Che concordi e dici che fosse il pensiero di Paolo

La seconda:
Il quale anche se esisteva nella condizione di Dio, non volle aggrapparsi (rimanere stretto) a questa condizione nell'essere come Dio.
Dove si accerta una "preesistenza"
Ribadendo il fatto, come hai ammesso che le due traduzioni che alla fine esprimono significati completamente diversi, sono ambedue corrette
Dalla tua traduzione:
non consideró di rapinare l'uguaglianza con Dio
.
Valentino contesta:
Denny Burk si è preso la briga, nella sua dissertazione per il dottorato, di analizzare tutti gli oltre 320 infiniti articolati del nuovo testamento stabilendo che il "TO", ovvero l'articolo davanti al verbo einai, non indica un'anafora ma funge da marcatore sintattico nelle costruzioni con doppio accusativo, per cui μορφῇ θεοῦ e τὸ εἶναι ἴσα θεῷ non sono espressioni sinonime ma hanno significati distinti, e ciò implica che arpagmos si deve intendere come "res rapienda" non come "res rapta".
Tra l'altro "il famigerato" Domingo che bistratti, ma che non mi pare uno stupido ignorante, scrive:
https://digilander.libero.it/domingo7/F ... %202,6.htm

COSA DA AFFERRARE O COSA DA TRATTENERE?
ARPAGMONE ( αρπαγμον ) = res rapienda o res retinenda
Entrambe le traduzioni sono grammaticalmente possibili. Alcuni interpretano αρπαγμον come res retinenda , cioè come tesoro da trattenere gelosamente, mentre altri traducono αρπαγμον come res rapienda , cioè come bottino o preda da afferrare con violenza.).


A favore della seconda traduzione gioca il fatto che il verbo αρπαζω ( harpazo ) da cui deriva αρπαγμον ( harpagmon ) significa "derubare con violenza, ghermire, sottrarre velocemente, rapire, portar via" e che nel Nuovo Testamento è sempre usato in questo senso ( Matteo 11:12; Matteo 12:29; Matteo 13:19; Giovanni 6:15; Giovanni 10:12; Giovanni 10:28; Giovanni 10:29; Atti 8:39; Atti 23:10; 1 Tessalonicesi 4:17 ; Ebrei 10:34; Giuda 23; Apocalisse 12:5).

A favore della prima traduzione sta il fatto che la Parola di Dio, essendo già in forma di Dio, non avrebbe potuto voler afferrare e rapinare ciò che era già suo.

Di fatto, il punto di vista anti-trinitario loda Cristo perché rimase entro i limiti di un essere creato. A ben guardare però non sembra esserci molto da lodare in una creatura divina o angelica che rinunci ad un colpo di mano per spodestare Dio e per prenderne il posto.

Se Cristo si fosse limitato a non tentar di divenire uguale a Dio, non saremmo di fronte ad un caso di umiltà ma ad un semplice esempio di onestà intellettuale, di equilibrio mentale e di senso della misura.
Vero esempio di umiltà (giustamente lodato da Paolo) sembra invece il fatto che realmente Cristo, pur essendo Dio, si sia spogliato delle proprie prerogative divine per assumere forma di servo e natura umana, il tutto ....al solo fine di salvarci. Un paragone tra il Logos e Satana il Diavolo è inoltre logicamente improponibile: un assalto al trono di Dio da parte degli angeli ribelli non è infatti biblicamente provato né sembra credibile alla luce della grande intelligenza dei puri spiriti.

Probabile è invece un paragone con Adamo: il padre di tutti i viventi, pur essendo stato fatto solo ad immagine e somiglianza di Dio (Genesi 1,24), fu realmente tentato dalla prospettiva demenziale e titanica di diventare come Dio, peccando così di grave disobbedienza, di smisurata superbia e di evidente follia.

L'interpretazione di “ harpagmos ” in senso negativo (cioè di cosa da rubare, da rapinare, da afferrare con violenza) non va comunque rigettata a priori. Il testo di Filippesi 2,5 -11 lascia infatti spazio ad un accettabile subordinazionismo posizionale e funzionale all'interno della divinità, subordinazionismo peraltro valido anche nella piena ortodossa trinitaria.
Anche se il Padre e il Figlio sono “uno” nella loro essenza (cioè entrambi esistono nella forma di Dio), si sono evidentemente distinti nelle loro persone, nei loro ruoli e nelle loro funzioni.

Questo rapporto intra-trinitario rende possibile la redenzione. Secondo un piano programmato, il Padre manda il Figlio nel mondo come un rappresentante, come un uomo e come un servo. Il Figlio non cerca di abbandonare il suo ruolo, afferrandolo e trattenendo a tutti i costi un'innaturale parità funzionale con il Padre. Al contrario, il Figlio obbedisce al Padre ed entra nella storia. È sottomesso al Padre non solo nella sua incarnazione, nel rifiuto di cedere alle lusinghe di Satana e nella morte in croce ma ubbidisce ed ha obbedito al Padre da tutta l'eternità.

Se si accetta la possibilità che in Cristo convivessero due natura, non si può rigettare a priori la possibilità che le interpretazioni del termine "harpagmos" si completino a vicenda. Di fatto Gesù-Uomo non seguì l'esempio negativo di Adamo ed evitò di esercitare dalla propria carne un ruolo divino antagonista al Padre, mentre Gesù-Dio non conservò gelosamente le proprie prerogative celesti ma accettò di spogliarsi totalmente e di assumere la condizione di servo . [4] .

Alcuni studi filologici hanno comunque mostrato come αρπαγμα = αρπαγμον perda il connotato violento di res rapta e di res rapienda (cioè cosa rubata, preda, ruberia, furto, rapina, cosa da afferrare, cosa da ghermire) se usato (come in Filippesi 2, 6) con verbi come ηγεισθαι (ritenere), ποιεισθαι (supporre) e τιθεσθαι (credere) ed assume invece il significato di res retinenda (cioè di guadagno, colpo di fortuna, tesoro, vantaggio, cosa da trattenere, cosa da usare un proprio vantaggio , cosa da sfruttare per il proprio tornaconto). Tale uso sarebbe testimoniato da moltissimi autorevoli scrittori greci come Dionigi di Alicarnasso, Eliodoro , Galeno , Herondas , Lisia , Luciano, Plutarco, Senofonte e Tucidide .
Da altra fonte trovo:
Il significato di ἁρπαγμός in Filippesi 2:6 - Un dato trascurato per la disuguaglianza funzionale all'interno della divinità

https://bible.org/article/meaning-harpa ... in-godhead
INTRODUZIONE AL PROBLEMA
Il significato preciso dell'enigmatico termine ἁρπαγμός inFil 2:6è una questione che è stata oggetto di molti dibattiti negli studi sul Nuovo Testamento. Mentre molto inchiostro è stato versato sulle questioni lessicali coinvolte nell’interpretazione di questo termine, alcune delle più importanti questioni grammaticali in gioco non sono state affatto discusse. In effetti, in molti casi, le preoccupazioni grammaticali che potrebbero contribuire alla nostra comprensione del significato di questo termine sono state in gran parte assunte o ignorate.

Una notevole eccezione a questa osservazione generale è l'importante analisi di questo termine da parte di NT Wright. Nel suo articolo intitolato “ ἁρπαγμός e il significato diFilippesi 2:5-11”, Wright propone che l’articolo nell’infinito articolare τὸ εἶναι abbia una forza semantica. Nello specifico, egli sostiene che questo infinito articolare porta con sé un significato anaforico. 
Lui scrive,
Un ulteriore motivo, di solito non notato, per prendereτὸ εἶναι ἴσα θεῷin stretto legame conὃς ἐν μορφῇ θεοῦ ὑπάρχωνè l'uso regolare dell'infinito articolare (qui,τὸ εἶναι) per riferirsi «a qualcosa menzionato in precedenza o comunque ben noto».1
Pertanto, per motivi grammaticali, Wright collega anaforicamente l'uguaglianza di Cristo con Dio ( τὸ εἶναι ἴσα θεῷ ) alla Sua preesistenza nella forma di Dio ( μορφῇ θεοῦ ).2

L'interpretazione di Wright ha esercitato una notevole influenza sulle successive interpretazioni di questo passaggio. Dopo Wright, molti altri commentatori hanno collegato l'uguaglianza con Dio e la forma di Dio sulla base di questo presunto riferimento anaforico.3A tal fine, Kenneth Grayston arriva addirittura a dire che τὸ εἶναι ἴσα θεῷ e μορφῇ θεοῦ sono “frasi equivalenti”.4Se questa ipotesi sul significato dell'infinito articolare è valida, allora emerge almeno un'implicazione interpretativa: l'uguaglianza con Dio e la forma di Dio sono frasi che denotano la stessa realtà. Tale interpretazione ha profonde implicazioni teologiche e deve essere esaminata criticamente da un punto di vista grammaticale.

Alcune ipotesi
Prima di dedicarci all'analisi grammaticale della tesi di Wright, devo esporre alcuni dei miei presupposti che riporto in questo testo. Innanzitutto assumerò un certo significato per la forma di Dio ( μορφῇ θεοῦ ). Ritengo cioè che questa frase si riferisca all'esistenza di Cristo nella sua essenza come vera divinità. In secondo luogo, poiché ritengo che il versetto sette si riferisca alla venuta di Cristo nell'incarnazione, ritengo che tutto il versetto sei si riferisca a eventi accaduti prima dell'arrivo del Figlio sulla Terra. Pertanto, l'esistenza di Cristo nella forma di Dio si riferisce alla Sua preesistente unità di essenza con Dio Padre prima dell'incarnazione. In altre parole,Filippesi 2:6si riferisce ad eventi e realtà accaduti nell'eternità passata.

L'assunzione più significativa che farò riguarda il significato lessicale di ἁρπαγμός . Considero l’ἁρπαγμός concreto e passivo.5Quindi traduco il termine una cosa a cui aggrapparsi . In altre parole, il Figlio non ha voluto né cercato di aspirare all’uguaglianza con Dio. Anche se qui sto dando per scontato un certo significato, va detto che la seguente analisi grammaticale influenzerà l'interpretazione, indipendentemente dal senso lessicale adottato. Detto questo passiamo ora all’analisi grammaticale.

CONCLUSIONE
Se ἁρπαγμός viene inteso secondo l'analisi di cui sopra, allora si dice che Cristo non ha afferrato o afferrato l' uguaglianza con Dio. Sebbene lui stesso fosse la vera divinità esistente nella forma di Dio , non cercò di cogliere quest'altro aspetto che lui stesso non possedeva, vale a dire l'uguaglianza con Dio . Al contrario, Cristo ha svuotato se stesso. Questo svuotamento consistette nel prendere la condizione di un servo e nel diventare simile agli uomini (v. 7). Pertanto, il contrasto tra i versetti sei e sette risulta molto chiaro. Cristo, la seconda Persona della Trinità, non ha cercato di strappare un'uguaglianza con Dio che appartiene propriamente solo alla prima Persona della Trinità. Al contrario, Cristo ha abbracciato quei doveri assegnati alla seconda Persona: assumere la forma di servo e farsi simile agli uomini . In questo modo Cristo non ha tentato di usurpare il ruolo peculiare della prima Persona della Trinità, ma nella sottomissione ha abbracciato con gioia i suoi nell'incarnazione.

IMPLICAZIONI TEOLOGICHE
Penso che questa interpretazione ci apra la strada per vedere un subordinazionismo ortodosso all'interno della Divinità.41Sebbene il Padre e il Figlio siano uno nella loro essenza (cioè esistono entrambi nella forma di Dio ), sono distinti nelle loro persone (cioè ciascuno di essi rispettivamente adempie a determinati ruoli e funzioni peculiari della propria Persona).42Il carattere di questa relazione intratrinitaria è ciò che rende possibile la redenzione. Secondo il piano prestabilito del Padre (Atti 2:23), il Padre manda il Figlio nel mondo come uomo e come servo.

43Il Figlio non cerca di abdicare al suo ruolo aspirando all'uguaglianza funzionale con il Padre (Fil 2:6). Al contrario, il Figlio obbedisce al Padre ed entra sulla scena della storia umana (Fil 2:7). In questa sequenza di eventi vediamo che il Figlio non solo obbedisce al Padre nella sua incarnazione, ma obbedisce anche al Padre da tutta l'eternità. Per questo motivo, se il Figlio non fosse stato obbediente all'invio del Padre nel mondo e se non fosse stato distinto dal Padre nella sua Persona (e quindi nel suo ruolo e funzione), allora la redenzione sarebbe stata impossibile, perché il Figlio non avrebbe mai obbedito al Padre e non ci sarebbe mai stata un'incarnazione.

Qualunque sia la nostra conclusione su questo testo, dobbiamo concordarla Fil 2:6rappresenta una delle affermazioni più sublimi della cristologia in tutto il Nuovo Testamento. In esso vediamo l'amore umiliato del Figlio di Dio manifestato nella sottomissione preincarnata al Padre. Qui viene esposto il grande paradigma della sottomissione a Dio Padre. Ecco Cristo, in tutta la sua esaltata modestia, che mostra la schiva obbedienza che avrebbe caratterizzato tutta la sua vita e la sua opera terrena. 

E qui vediamo che la sua magnifica obbedienza non è nata in una mangiatoia di duemila anni fa, ma è nata nell'eternità, nel mistero glorioso intratrinitario. Nell'amore, il Padre ha incaricato Suo Figlio di eseguire i Suoi ordini nell'incarnazione. L'obbedienza del Figlio, nata nell'eternità, ha compiuto non solo la redenzione dei peccatori, ma anche la manifestazione stessa dell'amore di Dio. Gesù disse: “Ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l’opera che mi hai dato da compiere. Ed ora glorificami insieme a te, Padre, con la gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse” (Giovanni 17:4-5). 
Le mie conclusioni vertono alla fine sul fatto che nella interpretazione esatta della lettera NON ESIISTONO VERITA' PRECOSTITUITE e come ammesso sia da Mauro che anche da altri autori, questo testo può essere tradotto correttamente e indifferentemente dando significati diversi.

Se poi volete la mia interpretazione finale è questa:

Gesù è contemporaneamente "vero Dio e vero uomo" e nella veste di vero UOMO, non disubbidì al Padre e non per niente dopo aver detto:
Dal Vangelo secondo Marco (Mc 14,1-15,47)
Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Alle tre, Gesù gridò a gran voce: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»
Rispose subito dopo:
(Gv 14, 31) "Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà" (Lc 22, 42). e faccio quello che il Padre mi ha comandato"
.
Il Padre alla fine:
9Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
10perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
11e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!,
a gloria di Dio Padre.
In breve Gesù "intronizzato" perse la sua veste umana per riprendersi la sua veste divina come Figlio di Dio e Persona della Trinità.
Presentazione
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Mario70
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Re: Ancora sull'inno ai filippesi 2

Messaggio da Mario70 »

Vieri ha scritto: 21/01/2024, 18:43 Buona domenica Mario !
Grazie per le tue spiegazioni che alla fine mi fai ragionare, fare delle ricerche e "stranamente" per un agnostico, farmi essere anche più convintamente cattolico. :sorriso:

Nonostante la mia ignoranza di greco mi piace però andare a fondo di questi passi di Paolo

ὃς ἐν μορφῇ θεοῦ ὑπάρχων οὐχ ἁρπαγμὸν ἡγήσατο τὸ εἶναι ἴσα θεῷ,
ὃς il quale
ἐν in
μ forma (rese possibili: immagine, condizione o natura)
θεοῦ del Dio
ὑπάρχων  esistendo
o οὐχ  non
ἁρπαγμὸν rapina (rese possibili: impadronirsi, afferrare con la forza, saccheggiare, trattenere per sé)
hēgēsato  consideró
τὸ εἶναι l'essere
ἴσα uguale (altre rese: come, simile)
θεῷ  al Dio
Le tue due versioni tradotte:

La prima:
Il quale essendo anche lui a immagine di Dio [come lo era Adamo], non consideró di rapinare l'uguaglianza con Dio [farsi uguale a Dio) [come invece fece Adamo

In questa maniera non c'è bisogno di preesistenza.
Che concordi e dici che fosse il pensiero di Paolo

La seconda:
Il quale anche se esisteva nella condizione di Dio, non volle aggrapparsi (rimanere stretto) a questa condizione nell'essere come Dio.
Dove si accerta una "preesistenza"
Ribadendo il fatto, come hai ammesso che le due traduzioni che alla fine esprimono significati completamente diversi, sono ambedue corrette
Dalla tua traduzione:
non consideró di rapinare l'uguaglianza con Dio
.
Valentino contesta:
Denny Burk si è preso la briga, nella sua dissertazione per il dottorato, di analizzare tutti gli oltre 320 infiniti articolati del nuovo testamento stabilendo che il "TO", ovvero l'articolo davanti al verbo einai, non indica un'anafora ma funge da marcatore sintattico nelle costruzioni con doppio accusativo, per cui μορφῇ θεοῦ e τὸ εἶναι ἴσα θεῷ non sono espressioni sinonime ma hanno significati distinti, e ciò implica che arpagmos si deve intendere come "res rapienda" non come "res rapta".
Tra l'altro "il famigerato" Domingo che bistratti, ma che non mi pare uno stupido ignorante, scrive:
https://digilander.libero.it/domingo7/F ... %202,6.htm

COSA DA AFFERRARE O COSA DA TRATTENERE?
ARPAGMONE ( αρπαγμον ) = res rapienda o res retinenda
Entrambe le traduzioni sono grammaticalmente possibili. Alcuni interpretano αρπαγμον come res retinenda , cioè come tesoro da trattenere gelosamente, mentre altri traducono αρπαγμον come res rapienda , cioè come bottino o preda da afferrare con violenza.).


A favore della seconda traduzione gioca il fatto che il verbo αρπαζω ( harpazo ) da cui deriva αρπαγμον ( harpagmon ) significa "derubare con violenza, ghermire, sottrarre velocemente, rapire, portar via" e che nel Nuovo Testamento è sempre usato in questo senso ( Matteo 11:12; Matteo 12:29; Matteo 13:19; Giovanni 6:15; Giovanni 10:12; Giovanni 10:28; Giovanni 10:29; Atti 8:39; Atti 23:10; 1 Tessalonicesi 4:17 ; Ebrei 10:34; Giuda 23; Apocalisse 12:5).

A favore della prima traduzione sta il fatto che la Parola di Dio, essendo già in forma di Dio, non avrebbe potuto voler afferrare e rapinare ciò che era già suo.

Di fatto, il punto di vista anti-trinitario loda Cristo perché rimase entro i limiti di un essere creato. A ben guardare però non sembra esserci molto da lodare in una creatura divina o angelica che rinunci ad un colpo di mano per spodestare Dio e per prenderne il posto.

Se Cristo si fosse limitato a non tentar di divenire uguale a Dio, non saremmo di fronte ad un caso di umiltà ma ad un semplice esempio di onestà intellettuale, di equilibrio mentale e di senso della misura.
Vero esempio di umiltà (giustamente lodato da Paolo) sembra invece il fatto che realmente Cristo, pur essendo Dio, si sia spogliato delle proprie prerogative divine per assumere forma di servo e natura umana, il tutto ....al solo fine di salvarci. Un paragone tra il Logos e Satana il Diavolo è inoltre logicamente improponibile: un assalto al trono di Dio da parte degli angeli ribelli non è infatti biblicamente provato né sembra credibile alla luce della grande intelligenza dei puri spiriti.

Probabile è invece un paragone con Adamo: il padre di tutti i viventi, pur essendo stato fatto solo ad immagine e somiglianza di Dio (Genesi 1,24), fu realmente tentato dalla prospettiva demenziale e titanica di diventare come Dio, peccando così di grave disobbedienza, di smisurata superbia e di evidente follia.

L'interpretazione di “ harpagmos ” in senso negativo (cioè di cosa da rubare, da rapinare, da afferrare con violenza) non va comunque rigettata a priori. Il testo di Filippesi 2,5 -11 lascia infatti spazio ad un accettabile subordinazionismo posizionale e funzionale all'interno della divinità, subordinazionismo peraltro valido anche nella piena ortodossa trinitaria.
Anche se il Padre e il Figlio sono “uno” nella loro essenza (cioè entrambi esistono nella forma di Dio), si sono evidentemente distinti nelle loro persone, nei loro ruoli e nelle loro funzioni.

Questo rapporto intra-trinitario rende possibile la redenzione. Secondo un piano programmato, il Padre manda il Figlio nel mondo come un rappresentante, come un uomo e come un servo. Il Figlio non cerca di abbandonare il suo ruolo, afferrandolo e trattenendo a tutti i costi un'innaturale parità funzionale con il Padre. Al contrario, il Figlio obbedisce al Padre ed entra nella storia. È sottomesso al Padre non solo nella sua incarnazione, nel rifiuto di cedere alle lusinghe di Satana e nella morte in croce ma ubbidisce ed ha obbedito al Padre da tutta l'eternità.

Se si accetta la possibilità che in Cristo convivessero due natura, non si può rigettare a priori la possibilità che le interpretazioni del termine "harpagmos" si completino a vicenda. Di fatto Gesù-Uomo non seguì l'esempio negativo di Adamo ed evitò di esercitare dalla propria carne un ruolo divino antagonista al Padre, mentre Gesù-Dio non conservò gelosamente le proprie prerogative celesti ma accettò di spogliarsi totalmente e di assumere la condizione di servo . [4] .

Alcuni studi filologici hanno comunque mostrato come αρπαγμα = αρπαγμον perda il connotato violento di res rapta e di res rapienda (cioè cosa rubata, preda, ruberia, furto, rapina, cosa da afferrare, cosa da ghermire) se usato (come in Filippesi 2, 6) con verbi come ηγεισθαι (ritenere), ποιεισθαι (supporre) e τιθεσθαι (credere) ed assume invece il significato di res retinenda (cioè di guadagno, colpo di fortuna, tesoro, vantaggio, cosa da trattenere, cosa da usare un proprio vantaggio , cosa da sfruttare per il proprio tornaconto). Tale uso sarebbe testimoniato da moltissimi autorevoli scrittori greci come Dionigi di Alicarnasso, Eliodoro , Galeno , Herondas , Lisia , Luciano, Plutarco, Senofonte e Tucidide .
Da altra fonte trovo:
Il significato di ἁρπαγμός in Filippesi 2:6 - Un dato trascurato per la disuguaglianza funzionale all'interno della divinità

https://bible.org/article/meaning-harpa ... in-godhead
INTRODUZIONE AL PROBLEMA
Il significato preciso dell'enigmatico termine ἁρπαγμός inFil 2:6è una questione che è stata oggetto di molti dibattiti negli studi sul Nuovo Testamento. Mentre molto inchiostro è stato versato sulle questioni lessicali coinvolte nell’interpretazione di questo termine, alcune delle più importanti questioni grammaticali in gioco non sono state affatto discusse. In effetti, in molti casi, le preoccupazioni grammaticali che potrebbero contribuire alla nostra comprensione del significato di questo termine sono state in gran parte assunte o ignorate.

Una notevole eccezione a questa osservazione generale è l'importante analisi di questo termine da parte di NT Wright. Nel suo articolo intitolato “ ἁρπαγμός e il significato diFilippesi 2:5-11”, Wright propone che l’articolo nell’infinito articolare τὸ εἶναι abbia una forza semantica. Nello specifico, egli sostiene che questo infinito articolare porta con sé un significato anaforico. 
Lui scrive,
Un ulteriore motivo, di solito non notato, per prendereτὸ εἶναι ἴσα θεῷin stretto legame conὃς ἐν μορφῇ θεοῦ ὑπάρχωνè l'uso regolare dell'infinito articolare (qui,τὸ εἶναι) per riferirsi «a qualcosa menzionato in precedenza o comunque ben noto».1
Pertanto, per motivi grammaticali, Wright collega anaforicamente l'uguaglianza di Cristo con Dio ( τὸ εἶναι ἴσα θεῷ ) alla Sua preesistenza nella forma di Dio ( μορφῇ θεοῦ ).2

L'interpretazione di Wright ha esercitato una notevole influenza sulle successive interpretazioni di questo passaggio. Dopo Wright, molti altri commentatori hanno collegato l'uguaglianza con Dio e la forma di Dio sulla base di questo presunto riferimento anaforico.3A tal fine, Kenneth Grayston arriva addirittura a dire che τὸ εἶναι ἴσα θεῷ e μορφῇ θεοῦ sono “frasi equivalenti”.4Se questa ipotesi sul significato dell'infinito articolare è valida, allora emerge almeno un'implicazione interpretativa: l'uguaglianza con Dio e la forma di Dio sono frasi che denotano la stessa realtà. Tale interpretazione ha profonde implicazioni teologiche e deve essere esaminata criticamente da un punto di vista grammaticale.

Alcune ipotesi
Prima di dedicarci all'analisi grammaticale della tesi di Wright, devo esporre alcuni dei miei presupposti che riporto in questo testo. Innanzitutto assumerò un certo significato per la forma di Dio ( μορφῇ θεοῦ ). Ritengo cioè che questa frase si riferisca all'esistenza di Cristo nella sua essenza come vera divinità. In secondo luogo, poiché ritengo che il versetto sette si riferisca alla venuta di Cristo nell'incarnazione, ritengo che tutto il versetto sei si riferisca a eventi accaduti prima dell'arrivo del Figlio sulla Terra. Pertanto, l'esistenza di Cristo nella forma di Dio si riferisce alla Sua preesistente unità di essenza con Dio Padre prima dell'incarnazione. In altre parole,Filippesi 2:6si riferisce ad eventi e realtà accaduti nell'eternità passata.

L'assunzione più significativa che farò riguarda il significato lessicale di ἁρπαγμός . Considero l’ἁρπαγμός concreto e passivo.5Quindi traduco il termine una cosa a cui aggrapparsi . In altre parole, il Figlio non ha voluto né cercato di aspirare all’uguaglianza con Dio. Anche se qui sto dando per scontato un certo significato, va detto che la seguente analisi grammaticale influenzerà l'interpretazione, indipendentemente dal senso lessicale adottato. Detto questo passiamo ora all’analisi grammaticale.

CONCLUSIONE
Se ἁρπαγμός viene inteso secondo l'analisi di cui sopra, allora si dice che Cristo non ha afferrato o afferrato l' uguaglianza con Dio. Sebbene lui stesso fosse la vera divinità esistente nella forma di Dio , non cercò di cogliere quest'altro aspetto che lui stesso non possedeva, vale a dire l'uguaglianza con Dio . Al contrario, Cristo ha svuotato se stesso. Questo svuotamento consistette nel prendere la condizione di un servo e nel diventare simile agli uomini (v. 7). Pertanto, il contrasto tra i versetti sei e sette risulta molto chiaro. Cristo, la seconda Persona della Trinità, non ha cercato di strappare un'uguaglianza con Dio che appartiene propriamente solo alla prima Persona della Trinità. Al contrario, Cristo ha abbracciato quei doveri assegnati alla seconda Persona: assumere la forma di servo e farsi simile agli uomini . In questo modo Cristo non ha tentato di usurpare il ruolo peculiare della prima Persona della Trinità, ma nella sottomissione ha abbracciato con gioia i suoi nell'incarnazione.

IMPLICAZIONI TEOLOGICHE
Penso che questa interpretazione ci apra la strada per vedere un subordinazionismo ortodosso all'interno della Divinità.41Sebbene il Padre e il Figlio siano uno nella loro essenza (cioè esistono entrambi nella forma di Dio ), sono distinti nelle loro persone (cioè ciascuno di essi rispettivamente adempie a determinati ruoli e funzioni peculiari della propria Persona).42Il carattere di questa relazione intratrinitaria è ciò che rende possibile la redenzione. Secondo il piano prestabilito del Padre (Atti 2:23), il Padre manda il Figlio nel mondo come uomo e come servo.

43Il Figlio non cerca di abdicare al suo ruolo aspirando all'uguaglianza funzionale con il Padre (Fil 2:6). Al contrario, il Figlio obbedisce al Padre ed entra sulla scena della storia umana (Fil 2:7). In questa sequenza di eventi vediamo che il Figlio non solo obbedisce al Padre nella sua incarnazione, ma obbedisce anche al Padre da tutta l'eternità. Per questo motivo, se il Figlio non fosse stato obbediente all'invio del Padre nel mondo e se non fosse stato distinto dal Padre nella sua Persona (e quindi nel suo ruolo e funzione), allora la redenzione sarebbe stata impossibile, perché il Figlio non avrebbe mai obbedito al Padre e non ci sarebbe mai stata un'incarnazione.

Qualunque sia la nostra conclusione su questo testo, dobbiamo concordarla Fil 2:6rappresenta una delle affermazioni più sublimi della cristologia in tutto il Nuovo Testamento. In esso vediamo l'amore umiliato del Figlio di Dio manifestato nella sottomissione preincarnata al Padre. Qui viene esposto il grande paradigma della sottomissione a Dio Padre. Ecco Cristo, in tutta la sua esaltata modestia, che mostra la schiva obbedienza che avrebbe caratterizzato tutta la sua vita e la sua opera terrena. 

E qui vediamo che la sua magnifica obbedienza non è nata in una mangiatoia di duemila anni fa, ma è nata nell'eternità, nel mistero glorioso intratrinitario. Nell'amore, il Padre ha incaricato Suo Figlio di eseguire i Suoi ordini nell'incarnazione. L'obbedienza del Figlio, nata nell'eternità, ha compiuto non solo la redenzione dei peccatori, ma anche la manifestazione stessa dell'amore di Dio. Gesù disse: “Ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l’opera che mi hai dato da compiere. Ed ora glorificami insieme a te, Padre, con la gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse” (Giovanni 17:4-5). 
Le mie conclusioni vertono alla fine sul fatto che nella interpretazione esatta della lettera NON ESIISTONO VERITA' PRECOSTITUITE e come ammesso sia da Mauro che anche da altri autori, questo testo può essere tradotto correttamente e indifferentemente dando significati diversi.

Se poi volete la mia interpretazione finale è questa:

Gesù è contemporaneamente "vero Dio e vero uomo" e nella veste di vero UOMO, non disubbidì al Padre e non per niente dopo aver detto:
Dal Vangelo secondo Marco (Mc 14,1-15,47)
Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Alle tre, Gesù gridò a gran voce: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»
Rispose subito dopo:
(Gv 14, 31) "Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà" (Lc 22, 42). e faccio quello che il Padre mi ha comandato"
.
Il Padre alla fine:
9Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
10perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
11e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!,
a gloria di Dio Padre.
In breve Gesù "intronizzato" perse la sua veste umana per riprendersi la sua veste divina come Figlio di Dio e Persona della Trinità.
Caro Vieri, mentre concordo riguardo le possibili molteplici interpretazioni del passo in questione (e proprio per questo non la prenderei in considerazione se fossi in te), vorrei solo farti notare che la tua ultima interpretazione ti rende eretico per la tua chiesa :risata:
Secondo la tua Chiesa non è che il Figlio di Dio gioca a vestirsi e svestirsi della sua natura umana, ma quando l'assume non l'abbandona più, le due nature rimangono tali, distinte ma unite per sempre.
Ecco perché il Gesù intronizzato è sempre il Gesù uomo, il figlio di Dio visto dal punto di vista economico, egli in quanto creatura viene esaltato da Dio, messo alla sua destra e gli viene dato il nome al di sopra di ogni altra creatura, e queste lo devono adorare; come già detto "Dio il figlio" visto nella sua natura divina è immutabile e non ha bisogno di essere esaltato da nessuno perché è Dio per natura e adorato in quanto tale da sempre.
"La cosa più triste è che molto spesso chi viene ingannato, o illuso, tende a rimanere strettamente ancorato a quello in cui crede nonostante le evidenze indichino chiaramente che la realtà è diversa. Forse è talmente affezionato alle sue credenze che preferisce chiudersi gli occhi e tapparsi le orecchie di fronte a qualunque cosa possa farle vacillare."
(Torre di Guardia 1/9/2010 p 10)
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Re: Ancora sull'inno ai filippesi 2

Messaggio da Vieri »

vorrei solo farti notare che la tua ultima interpretazione ti rende eretico per la tua chiesa :risata:
Secondo la tua Chiesa non è che il Figlio di Dio gioca a vestirsi e svestirsi della sua natura umana, ma quando l'assume non l'abbandona più, le due nature rimangono tali, distinte ma unite per sempre.
Ecco perché il Gesù intronizzato è sempre il Gesù uomo, il figlio di Dio visto dal punto di vista economico, egli in quanto creatura viene esaltato da Dio, messo alla sua destra e gli viene dato il nome al di sopra di ogni altra creatura
, e queste lo devono adorare, come già detto, "Dio il figlio" visto nella sua natura divina è immutabile e non ha bisogno di essere esaltato da nessuno perché è Dio per natura e adorato in quanto tale da sempre.
Ciao Mario vedo che si impara sempre qualche cosa e che onestamente questa era una "pensata dell'ultim'ora" e se mi dai dell'"eretico" me ne pento subito e non dovrò alla fine confessarmi.. mi fido di un "miscredente" :risata: :risata:

Penso che alla fine con queste ultime precisazioni concordiamo, a parte forse Valentino, che possono esistere sempre diverse traduzioni ed interpretazioni tutte logiche e plausibili dove mi sembra democratico accettare il fatto che ognuno possa rimanere sempre delle proprie idee.
Alla prossima...!!
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Re: Ancora sull'inno ai filippesi 2

Messaggio da Valentino »

Vieri ha scritto: 21/01/2024, 18:43Dove si accerta una "preesistenza"
Non è che si "accerta" una preesistenza, al limite la si presume.
La qual cosa non risolve un problema di fondo.
Anche coloro (come Holloway) che ritengono o presumono che ci sia un riferimento ad una preesistenza, non affermano che questa preesistenza debba immaginarsi necessariamente nei termini dell'ontologia dogmatica, tanto è vero che Holloway pur ritenendo che nel brano ci sia una preesistenza ritiene che si tratti di una preesistenza angelica.
Questo per precisare che la nozione di preesistenza in se stessa non indica che si faccia riferimento ad una presunta "natura divina" di Gesù, per la semplice ragione che sempre in Filippesi l'espressione "morphe theu" non si può tradurre "di natura divina" in quanto il significato di morphe deve essere compreso in maniera "omogenea" anche per quanto riguarda l'espressione "forma di servo": se traduciano "forma di Dio" come "di natura divina" la seconda espressione sarebbe incomprensibile perché parleremmo di Gesù che assume la "natura di schiavo"! Esiste la "natura di servo o di schiavo"?!?!?
Non ha senso.
«Anche se qui non parla dell'εἰκών di Dio ma della sua μορφή ("forma"), l'uso di μεταμορφούμεθα in 2 Cor 3:18 e di συμμόρφους in Rm 8:29 mostra che μορφή e i suoi derivati avevano per lui [ovvero per Paolo] una spiccata affinità con il concetto di εἰκών. È stato addirittura suggerito che con ἐν μορφῇ θεοῦ Fil 2:6 si alluda a Gn 1:26-27 e che quindi si tratti dell'umanità terrena di Cristo piuttosto che della sua preesistenza.
F. Avemarie, Image of God and Image of Christ: Developments in Pauline and Ancient Jewish Anthropology, in id. The Dead Sea Scrolls and Pauline Literature, edited by Jean-Sébastien Rey, BRILL, Leiden-Boston, 2014, pagg. 213-214, tradotto dall'inglese.
Vieri ha scritto: 21/01/2024, 18:43Alcuni studi filologici hanno comunque mostrato come αρπαγμα = αρπαγμον perda il connotato violento di res rapta e di res rapienda (cioè cosa rubata, preda, ruberia, furto, rapina, cosa da afferrare, cosa da ghermire) se usato (come in Filippesi 2, 6) con verbi come ηγεισθαι (ritenere), ποιεισθαι (supporre) e τιθεσθαι (credere) ed assume invece il significato di res retinenda (cioè di guadagno, colpo di fortuna, tesoro, vantaggio, cosa da trattenere, cosa da usare un proprio vantaggio , cosa da sfruttare per il proprio tornaconto).
Qui si fa riferimento agli studi filologici di Hoover, che sono però stati fatto oggetto di severa critica:

«S. Vollenweider [...] ha recentemente lanciato la sfida più persuasiva alla visione dominante del significato di ἁρπαγμὸν. Egli sostiene, sulla base di tradizioni bibliche, ebraiche ed ellenistiche, che l'immaginario riflesso nell'affermazione οὐχ ἁρπαγμὸν ἡγήσατο τὸ εἶναι ἴσα θεῷ deve essere inteso in senso del tutto negativo. A differenza dell'arroganza (hubris) dei re simili a dèi, che cercavano di usurpare un'uguaglianza con Dio che non spettava loro, Cristo non considerava l'“uguaglianza con Dio” come un “bottino” (ἁρπαγμὸν). […] Vollenweider opta per quest'ultima interpretazione (res rapienda): nel v. 6b Cristo rifiuta di afferrare una “uguaglianza con Dio” che non era sua».J. Hellerman, μορφῇ θεοῦ as a Signifier of Social Status in Philippians 2:6, in Journal of the Evangelical Theological Society 52/4, Evangelical Theological Society, 2009, pagg. 787-788, tradotto dall'inglese.

A quanto pare:

"la parola esprime qualcosa da raggiungere, non qualcosa di già posseduto. Questa interpretazione rende molto meglio il senso dell'affermazione culminante dei vv. 9-11, secondo cui Dio ha esaltato Gesù. La trama del brano richiede che lo stato finale di Gesù sia superiore a quello iniziale. In un altro importante studio recente, Samuel Vollenweider ha sostenuto che il v. 6 dovrebbe essere inteso come res rapienda".
Adela Yarbro Collins, Psalms, Philippians 2:6-11, and the Origins of Christology, in ead. Biblical Interpretation - A Journal of Contemporary Approaches, vol. 11: Issue 3, Brill Academic Publishers, 2003, pagg. 366-367.
Vieri ha scritto: 21/01/2024, 18:43Il significato di ἁρπαγμός in Filippesi 2:6 - Un dato trascurato per la disuguaglianza funzionale all'interno della divinità
Questo è Denny Burk, il quale appunto esclude un nesso anaforico su base grammaticale tra le espressioni "forma di Dio" ed "essere come Dio".
Vieri ha scritto: 21/01/2024, 18:43In breve Gesù "intronizzato" perse la sua veste umana per riprendersi la sua veste divina come Figlio di Dio e Persona della Trinità.
A parte il fatto che Paolo di Tarso non era trinitario quello che scrivi, come evidenziato più sopra, in effetti contraddice la trama del brano che parla di una sovresaltazione.
Tu postuli semplicemente che Gesù sia "tornato" al posto che ricopriva in precedenza!
Ma non è quello che dice il testo.
Senza contare il fatto, come ti ha spiegato Mario, che quanto scrivi contraddice anche la dottrina trinitaria che dici di professare ma che non conosci approfonditamente.
illustri autori quali E.P. Sanders, Geza Vermes, Dale Allison, Paula Fredriksen e tanti altri [...] su un punto concordano tutti:
Gesù non trascorse il suo ministero a proclamarsi divino.
B. Ehrman

Gesù non fu cristiano fu ebreo. J. Wellhausen

I soli uomini a vivere, lungo tutto il medioevo, a imitazione di Gesù furono gli ebrei. K. Jaspers

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Re: Ancora sull'inno ai filippesi 2

Messaggio da Vieri »

Per ricordare:
Mario conferma:
Caro Vieri, concordo riguardo le possibili molteplici interpretazioni del passo in questione
Valentino scrive:
non è che si "accerta" una preesistenza, al limite la si presume.

Certamente le mie tesi si "presumono" mentre le sue sono sempre "certezze"..--

Scrive poi che un suo studioso non concorda:
Denny Burk si è preso la briga, nella sua dissertazione per il dottorato, di analizzare tutti gli oltre 320 infiniti articolati del nuovo testamento stabilendo che il "TO", ovvero l'articolo davanti al verbo einai, non indica un'anafora ma funge da marcatore sintattico nelle costruzioni con doppio accusativo, per cui μορφῇ θεοῦ e τὸ εἶναι ἴσα θεῷ non sono espressioni sinonime ma hanno significati distinti, e ciò implica che arpagmos si deve intendere come "res rapienda" non come "res rapta".
Ed allora riporto qui di seguito le opinioni di Wright.....
https://bible.org/article/meaning-harpa ... in-godhead
L'interpretazione di Wright ha esercitato una notevole influenza sulle successive interpretazioni di questo passaggio. Dopo Wright, molti altri commentatori hanno collegato l'uguaglianza con Dio e la forma di Dio sulla base di questo presunto riferimento anaforico.3A tal fine, Kenneth Grayston arriva addirittura a dire che τὸ εἶναι ἴσα θεῷ e μορφῇ θεοῦ sono “frasi equivalenti”.4Se questa ipotesi sul significato dell'infinito articolare è valida, allora emerge almeno un'implicazione interpretativa: l'uguaglianza con Dio e la forma di Dio sono frasi che denotano la stessa realtà. Tale interpretazione ha profonde implicazioni teologiche e deve essere esaminata criticamente da un punto di vista grammaticale.
Quindi è accertato che le interpretazioni dei vari studiosi non sono mai univoche e dove non è che "democraticamente" la maggioranza possa andare al governo e dettare le regole della verità....
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Re: Ancora sull'inno ai filippesi 2

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Caro Vieri, attenzione: l'articolo che citi ha come scopo proprio quello di confutare quanto sostenuto da Wright.
Stai citando un articolo di Denny Burk ed è proprio Denny Burk che dimostra efficacemente che l'articolo determinativo TO è semplicemente un marcatore sintattico che non ha valore anaforico, per cui Wright ha torto perché non è possibile stabilire un nesso anaforico tra τὸ εἶναι ἴσα θεῷ e μορφῇ θεοῦ su base grammaticale!

Quindi no! Come viene spiegato proprio nell'articolo che citi τὸ εἶναι ἴσα θεῷ e μορφῇ θεοῦ NON sono “frasi equivalenti".
Se si vuole stabilire un presunto nesso anaforico tra τὸ εἶναι ἴσα θεῷ e μορφῇ θεοῦ non lo si può fare su base grammaticale, perché TO è semplicemente un marcatore sintattico e non indica un nesso anaforico...

Tu citi Mario. Direi però che sarebbe opportuno prendere in considerazione tutto quello che scrive Mario:

Mario sostiene giustamente che l'encomio di Filippesi...
Mario70 ha scritto: 27/09/2023, 16:25bisogna metterlo a confronto con la teologia paolina delle sue lettere autentiche e in nessuna di esse si fa cenno ad una preesistenza del figlio
Inoltre sempre come ti spiega Mario:
Mario70 ha scritto: 14/10/2023, 12:34Paolo nelle sue lettere autentiche non pensa a Cristo come a Dio e non fa cenno alla sua natura divina.
Sempre Mario ti spiega pure che:
Mario70 ha scritto: 19/01/2024, 16:12Essere nella "condizione di Dio" non vuole significare solamente "essere Dio" , ma anche "essere divino", esseri divini può riferirsi ad angeli o a esseri celesti, ecco perché alcuni biblisti pensano che Paolo stesse pensando ad un essere celeste accanto a [Dio] come lo era Enoch [...] questo perché crea più problemi al contesto pensare che Paolo lo credesse addirittura Dio, anche perché è proprio Dio che alla fine lo esalta.
illustri autori quali E.P. Sanders, Geza Vermes, Dale Allison, Paula Fredriksen e tanti altri [...] su un punto concordano tutti:
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Re: Ancora sull'inno ai filippesi 2

Messaggio da Vieri »

Ciao Valentino.
Riletto e rivisto bene il tutto con le seguenti considerazioni:
Per farla breve:
Pensiero di Wright
Wright collega anaforicamente l'uguaglianza di Cristo con Dio ( τὸ εἶναι ἴσα θεῷ ) alla Sua preesistenza nella forma di Dio ( μορφῇ θεοῦ ).2L'interpretazione di Wright ha esercitato una notevole influenza sulle successive interpretazioni di questo passaggio. Dopo Wright, molti altri commentatori hanno collegato l'uguaglianza con Dio e la forma di Dio sulla base di questo presunto riferimento anaforico.

3A tal fine, Kenneth Grayston arriva addirittura a dire che τὸ εἶναι ἴσα θεῷ e μορφῇ θεοῦ sono “frasi equivalenti”.
4Se questa ipotesi sul significato dell'infinito articolare è valida, allora emerge almeno un'implicazione interpretativa: l'uguaglianza con Dio e la forma di Dio sono frasi che denotano la stessa realtà
Pensiero di Denny Burk
La contestazione di Wallace da parte di Denny Burk
In secondo luogo, citando due versetti (Rom. 7:18;2 Cor. 7:11) in cui gli infiniti articolari hanno chiaramente significato anaforico non stabilisce lo stesso significato per l'infinito articolare inFilippesi 2:6. La ragione principale di ciò è dovuta alla critica mancanza di analogia traFilippesi 2:6e i due versi citati da Wright. Gli infiniti articolari inRomani 7:18E2 Corinzi 7:11ciascuno ha lessemi identici come referenti nei contesti precedenti, un fenomeno che appare in ogni chiaro uso anaforico dell'infinito articolare.12
.......

Wright sostiene che l'articolo è anaforico e fa riferimento aμορφῇ θεοῦ. Per quanto attraente possa essere teologicamente questa visione, ha una base debole dal punto di vista grammaticale. L’infinito è l’oggetto e il termine anartro,ἁρπαγμός, è il complemento. Il motivo più naturale per l'articolo con l'infinito è semplicemente quello di contrassegnarlo come oggetto
In breve smentisce che τὸ εἶναι ἴσα θεῷ e μορφῇ θεοῦ possano essere “frasi equivalenti”.
Per farla breve alla fine, senza andare a ripetere queste dettagliate analisi, si rileva che esistono due opinioni contrastanti ma che attestano sempre un legame stretto di Gesù con Dio:

CONCLUSIONI ESEGETICHE
Se l'autore avesse voluto equiparare le due frasi, avrebbe potuto semplicemente affermare che, sebbene esistesse nella forma di Dio, non considererebbe l'essere nella forma di Dio come una cosa a cui aggrapparsi ( ἐν μορφῇ θεοῦ ὑπάρχων οὐχ ἁρπαγμὸν ἡγήσατο τὸ εἶναι ἐν μορφῇ θεοῦ/ ).

 Tuttavia, il fatto stesso che l'autore abbia scelto di utilizzare una fraseologia diversa indica che egli desidera denotare realtà diverse, non sinonimi.

Sorge allora la questione di come questa frase possa essere teologicamente intelligibile; come può avere senso questa interpretazione dato che μορφῇ θεοῦ si riferisce all'essenza preesistente di Cristo come divinità? L'uguaglianza di Cristo con Dio ( τὸ εἶναι ἴσα θεῶ'/ ) non dovrebbe essere considerata solo un altro modo di riferirsi alla sua essenza preesistente come divinità ( μορφῇ θεοῦ )? La risposta all'ultima domanda è “no” se consideriamo la possibilità che μορφῇ θεοῦ si riferisca all'essenza mentre τὸ εἶναι ἴσα θεῶ'/ si riferisca alla funzione. “Se questo è il significato del testo, allora i due non sono sinonimi: sebbene Cristo fosse la vera divinità, non usurpò il ruolo del Padre”.40

Se ἁρπαγμός viene inteso secondo l'analisi di cui sopra, allora si dice che Cristo non ha afferrato o afferrato l' uguaglianza con Dio. Sebbene lui stesso fosse la vera divinità esistente nella forma di Dio , non cercò di cogliere quest'altro aspetto che lui stesso non possedeva, vale a dire l'uguaglianza con Dio . Al contrario, Cristo ha svuotato se stesso. Questo svuotamento consistette nel prendere la condizione di un servo e nel diventare simile agli uomini (v. 7). 

Pertanto, il contrasto tra i versetti sei e sette risulta molto chiaro. Cristo, la seconda Persona della Trinità, non ha cercato di strappare un'uguaglianza con Dio ( Padre ) che appartiene propriamente solo alla prima Persona della Trinità. 
Al contrario, Cristo ha abbracciato quei doveri assegnati alla seconda Persona: assumere la forma di servo e farsi simile agli uomini . In questo modo Cristo non ha tentato di usurpare il ruolo peculiare della prima Persona della Trinità, ma nella sottomissione ha abbracciato con gioia i suoi nell'incarnazione
.
IMPLICAZIONI TEOLOGICHE
Penso che questa interpretazione ci apra la strada per vedere un subordinazionismo ortodosso all'interno della Divinità.41Sebbene il Padre e il Figlio siano uno nella loro essenza (cioè esistono entrambi nella forma di Dio ), sono distinti nelle loro persone[/b] (cioè ciascuno di essi rispettivamente adempie a determinati ruoli e funzioni peculiari della propria Persona). ).42Il carattere di questa relazione intratrinitaria è ciò che rende possibile la redenzione. 

Secondo il piano prestabilito del Padre (Atti 2:23), il Padre manda il Figlio nel mondo come uomo e come servo.43Il Figlio non cerca di abdicare al suo ruolo aspirando all'uguaglianza funzionale con il Padre (Fil 2:6). Al contrario, il Figlio obbedisce al Padre ed entra sulla scena della storia umana (Fil 2:7). In questa sequenza di eventi vediamo che il Figlio non solo obbedisce al Padre nella sua incarnazione, ma obbedisce anche al Padre da tutta l'eternità. Per questo motivo, se il Figlio non fosse stato obbediente all'invio del Padre nel mondo e se non fosse stato distinto dal Padre nella sua Persona (e quindi nel suo ruolo e funzione), allora la redenzione sarebbe stata impossibile, perché il Figlio non avrebbe mai obbedito al Padre e non ci sarebbe mai stata un'incarnazione.

Qualunque sia la nostra conclusione su questo testo, dobbiamo concordarla Fil 2:6rappresenta una delle affermazioni più sublimi della cristologia in tutto il Nuovo Testamento. In esso vediamo l'amore umiliato del Figlio di Dio manifestato nella sottomissione preincarnata al Padre. Qui viene esposto il grande paradigma della sottomissione a Dio Padre. Ecco Cristo, in tutta la sua esaltata modestia, che mostra la schiva obbedienza che avrebbe caratterizzato tutta la sua vita e la sua opera terrena. E qui vediamo che la sua magnifica obbedienza non è nata in una mangiatoia di duemila anni fa, ma è nata nell'eternità, nel mistero glorioso intratrinitario. Nell'amore, il Padre ha incaricato Suo Figlio di eseguire i Suoi ordini nell'incarnazione. L'obbedienza del Figlio, nata nell'eternità, ha compiuto non solo la redenzione dei peccatori, ma anche la manifestazione stessa dell'amore di Dio. Gesù disse: “Ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l’opera che mi hai dato da compiere. Ed ora glorificami insieme a te, Padre, con la gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse” (Giovanni 17:4-5)
Giovanni 17
1 Così parlò Gesù. Poi, alzàti gli occhi al cielo, disse: «Padre, è venuta l'ora: glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te. 2Tu gli hai dato potere su ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. 3Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo. 4Io ti ho glorificato sulla terra, compiendo l'opera che mi hai dato da fare. 5E ora, Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse.
6Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi e li hai dati a me, ed essi hanno osservato la tua parola. 7Ora essi sanno che tutte le cose che mi hai dato vengono da te, 8perché le parole che hai dato a me io le ho date a loro. Essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato.
In breve nessuna smentita ma una più corretta interpretazione
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Re: Ancora sull'inno ai filippesi 2

Messaggio da Mario70 »

Vieri ha scritto: 23/01/2024, 16:13 Ciao Valentino.
Riletto e rivisto bene il tutto con le seguenti considerazioni:
Per farla breve:
Pensiero di Wright
Wright collega anaforicamente l'uguaglianza di Cristo con Dio ( τὸ εἶναι ἴσα θεῷ ) alla Sua preesistenza nella forma di Dio ( μορφῇ θεοῦ ).2L'interpretazione di Wright ha esercitato una notevole influenza sulle successive interpretazioni di questo passaggio. Dopo Wright, molti altri commentatori hanno collegato l'uguaglianza con Dio e la forma di Dio sulla base di questo presunto riferimento anaforico.

3A tal fine, Kenneth Grayston arriva addirittura a dire che τὸ εἶναι ἴσα θεῷ e μορφῇ θεοῦ sono “frasi equivalenti”.
4Se questa ipotesi sul significato dell'infinito articolare è valida, allora emerge almeno un'implicazione interpretativa: l'uguaglianza con Dio e la forma di Dio sono frasi che denotano la stessa realtà
Pensiero di Denny Burk
La contestazione di Wallace da parte di Denny Burk
In secondo luogo, citando due versetti (Rom. 7:18;2 Cor. 7:11) in cui gli infiniti articolari hanno chiaramente significato anaforico non stabilisce lo stesso significato per l'infinito articolare inFilippesi 2:6. La ragione principale di ciò è dovuta alla critica mancanza di analogia traFilippesi 2:6e i due versi citati da Wright. Gli infiniti articolari inRomani 7:18E2 Corinzi 7:11ciascuno ha lessemi identici come referenti nei contesti precedenti, un fenomeno che appare in ogni chiaro uso anaforico dell'infinito articolare.12
.......

Wright sostiene che l'articolo è anaforico e fa riferimento aμορφῇ θεοῦ. Per quanto attraente possa essere teologicamente questa visione, ha una base debole dal punto di vista grammaticale. L’infinito è l’oggetto e il termine anartro,ἁρπαγμός, è il complemento. Il motivo più naturale per l'articolo con l'infinito è semplicemente quello di contrassegnarlo come oggetto
In breve smentisce che τὸ εἶναι ἴσα θεῷ e μορφῇ θεοῦ possano essere “frasi equivalenti”.
Per farla breve alla fine, senza andare a ripetere queste dettagliate analisi, si rileva che esistono due opinioni contrastanti ma che attestano sempre un legame stretto di Gesù con Dio:

CONCLUSIONI ESEGETICHE
Se l'autore avesse voluto equiparare le due frasi, avrebbe potuto semplicemente affermare che, sebbene esistesse nella forma di Dio, non considererebbe l'essere nella forma di Dio come una cosa a cui aggrapparsi ( ἐν μορφῇ θεοῦ ὑπάρχων οὐχ ἁρπαγμὸν ἡγήσατο τὸ εἶναι ἐν μορφῇ θεοῦ/ ).

 Tuttavia, il fatto stesso che l'autore abbia scelto di utilizzare una fraseologia diversa indica che egli desidera denotare realtà diverse, non sinonimi.

Sorge allora la questione di come questa frase possa essere teologicamente intelligibile; come può avere senso questa interpretazione dato che μορφῇ θεοῦ si riferisce all'essenza preesistente di Cristo come divinità? L'uguaglianza di Cristo con Dio ( τὸ εἶναι ἴσα θεῶ'/ ) non dovrebbe essere considerata solo un altro modo di riferirsi alla sua essenza preesistente come divinità ( μορφῇ θεοῦ )? La risposta all'ultima domanda è “no” se consideriamo la possibilità che μορφῇ θεοῦ si riferisca all'essenza mentre τὸ εἶναι ἴσα θεῶ'/ si riferisca alla funzione. “Se questo è il significato del testo, allora i due non sono sinonimi: sebbene Cristo fosse la vera divinità, non usurpò il ruolo del Padre”.40

Se ἁρπαγμός viene inteso secondo l'analisi di cui sopra, allora si dice che Cristo non ha afferrato o afferrato l' uguaglianza con Dio. Sebbene lui stesso fosse la vera divinità esistente nella forma di Dio , non cercò di cogliere quest'altro aspetto che lui stesso non possedeva, vale a dire l'uguaglianza con Dio . Al contrario, Cristo ha svuotato se stesso. Questo svuotamento consistette nel prendere la condizione di un servo e nel diventare simile agli uomini (v. 7). 

Pertanto, il contrasto tra i versetti sei e sette risulta molto chiaro. Cristo, la seconda Persona della Trinità, non ha cercato di strappare un'uguaglianza con Dio ( Padre ) che appartiene propriamente solo alla prima Persona della Trinità. 
Al contrario, Cristo ha abbracciato quei doveri assegnati alla seconda Persona: assumere la forma di servo e farsi simile agli uomini . In questo modo Cristo non ha tentato di usurpare il ruolo peculiare della prima Persona della Trinità, ma nella sottomissione ha abbracciato con gioia i suoi nell'incarnazione
.
IMPLICAZIONI TEOLOGICHE
Penso che questa interpretazione ci apra la strada per vedere un subordinazionismo ortodosso all'interno della Divinità.41Sebbene il Padre e il Figlio siano uno nella loro essenza (cioè esistono entrambi nella forma di Dio ), sono distinti nelle loro persone[/b] (cioè ciascuno di essi rispettivamente adempie a determinati ruoli e funzioni peculiari della propria Persona). ).42Il carattere di questa relazione intratrinitaria è ciò che rende possibile la redenzione. 

Secondo il piano prestabilito del Padre (Atti 2:23), il Padre manda il Figlio nel mondo come uomo e come servo.43Il Figlio non cerca di abdicare al suo ruolo aspirando all'uguaglianza funzionale con il Padre (Fil 2:6). Al contrario, il Figlio obbedisce al Padre ed entra sulla scena della storia umana (Fil 2:7). In questa sequenza di eventi vediamo che il Figlio non solo obbedisce al Padre nella sua incarnazione, ma obbedisce anche al Padre da tutta l'eternità. Per questo motivo, se il Figlio non fosse stato obbediente all'invio del Padre nel mondo e se non fosse stato distinto dal Padre nella sua Persona (e quindi nel suo ruolo e funzione), allora la redenzione sarebbe stata impossibile, perché il Figlio non avrebbe mai obbedito al Padre e non ci sarebbe mai stata un'incarnazione.

Qualunque sia la nostra conclusione su questo testo, dobbiamo concordarla Fil 2:6rappresenta una delle affermazioni più sublimi della cristologia in tutto il Nuovo Testamento. In esso vediamo l'amore umiliato del Figlio di Dio manifestato nella sottomissione preincarnata al Padre. Qui viene esposto il grande paradigma della sottomissione a Dio Padre. Ecco Cristo, in tutta la sua esaltata modestia, che mostra la schiva obbedienza che avrebbe caratterizzato tutta la sua vita e la sua opera terrena. E qui vediamo che la sua magnifica obbedienza non è nata in una mangiatoia di duemila anni fa, ma è nata nell'eternità, nel mistero glorioso intratrinitario. Nell'amore, il Padre ha incaricato Suo Figlio di eseguire i Suoi ordini nell'incarnazione. L'obbedienza del Figlio, nata nell'eternità, ha compiuto non solo la redenzione dei peccatori, ma anche la manifestazione stessa dell'amore di Dio. Gesù disse: “Ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l’opera che mi hai dato da compiere. Ed ora glorificami insieme a te, Padre, con la gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse” (Giovanni 17:4-5)
Giovanni 17
1 Così parlò Gesù. Poi, alzàti gli occhi al cielo, disse: «Padre, è venuta l'ora: glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te. 2Tu gli hai dato potere su ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. 3Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo. 4Io ti ho glorificato sulla terra, compiendo l'opera che mi hai dato da fare. 5E ora, Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse.
6Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi e li hai dati a me, ed essi hanno osservato la tua parola. 7Ora essi sanno che tutte le cose che mi hai dato vengono da te, 8perché le parole che hai dato a me io le ho date a loro. Essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato.
In breve nessuna smentita ma una più corretta interpretazione
Ma Giovanni lo ha messo lui o te? Non mi va di andare a controllare, di solito fa questo minestrone un protestante di tipo fondamentalista e non uno studioso serio che cerca di trovare una traduzione sensata di un brano di un autore specifico, in un periodo storico preciso.
Detto questo sebbene io sia il primo ad ammettere che il passo in questione si apre a diverse interpretazioni, pensare che il povero Paolo, figlio di farisei pensasse questo:

"Cristo, la seconda Persona della Trinità, non ha cercato di strappare un'uguaglianza con Dio ( Padre ) che appartiene propriamente solo alla prima Persona della Trinità.
Al contrario, Cristo ha abbracciato quei doveri assegnati alla seconda Persona: assumere la forma di servo e farsi simile agli uomini . In questo modo Cristo non ha tentato di usurpare il ruolo peculiare della prima Persona della Trinità, ma nella sottomissione ha abbracciato con gioia i suoi nell'incarnazione."

É completamente assurdo!
Lo può pensare un credente che ha dimestichezza con la dottrina trinitaria del V secolo, ma non Paolo!
Dai siamo Seri.
È come se per capire la legge della gravitazione universale di Newton del 1700 si prendesse in esame la relatività generale di Einstein del 1900 (e parlo di 2 secoli e non 4) pensando che Newton conoscesse Einstein!
Non ci siamo per niente.
Un conto è l'approccio apologetico teologico che si può fare in chiesa dove si interpretano brani della Bibbia alla luce della teologia attuale, un altro é l'approccio filologico scientifico di un testo del genere, fatto in base alla conoscenza di quando questo testo è stato scritto, dei significati possibili del greco di quel periodo storico.
"La cosa più triste è che molto spesso chi viene ingannato, o illuso, tende a rimanere strettamente ancorato a quello in cui crede nonostante le evidenze indichino chiaramente che la realtà è diversa. Forse è talmente affezionato alle sue credenze che preferisce chiudersi gli occhi e tapparsi le orecchie di fronte a qualunque cosa possa farle vacillare."
(Torre di Guardia 1/9/2010 p 10)
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Re: Ancora sull'inno ai filippesi 2

Messaggio da Valentino »

Vieri dovresti citare anche la parte in cui Burk prima di confutare Wright, in premessa afferma che parte da un presupposto confessionale trinitario.
Burk infatti precisa quelle che chiama "some assumptions".
Sai cosa significa in inglese assumption?!!
Assunto, presupposto, insomma Burk è onesto nel precisare da quali PRESUPPOSTI PARTE.
Immagine
Non hai compreso insomma che Burk su base grammaticale onestamente non può far altro che riconoscere che NON esiste un nesso anaforico tra le due espressioni.Tuttavia poiché ammette candidamente in apertura che parte da precomprensioni confessionali passa a spiegare come è possibile conciliare il proprio presupposto confessionale alla luce del fatto che le due espressioni NON sono sinonime.
In parole povere Burk dice: onestamente non possiamo dire, come pretenderebbe Wright, che le due espressioni siano equivalenti, sinonime o che esista un nesso anaforico MA SE PARTIAMO DAL NOSTRO PRESUPPOSTO confessionale trinitario la mancanza di un nesso anaforico non può non costituire un problema insormontabile.
Si tratta di una esegesi armonizzante, altrimenti detta esegesi apologetica pastorale.
L'esegesi storico critica invece prende i fatti semplicemente per quelli che sono: ed i fatti attestano che le due espressioni non sono sinonime.
In sostanza non è che Burk ha dimostrato che Paolo credesse che Gesù fosse Dio e/o che fosse di natura divina ma solo che SE LO PRESUPPONIAMO, la mancanza dell'anafora in Filippesi può non costituire un problema.
Vuoi o non vuoi le due espressioni non sono sinonime.

@Mario: no Mario, Burk è uno studioso serio che prende atto del fatto che non esiste e non è dimostrabile un nesso anaforico tra le due espressioni. Preso atto di questo fatto e partendo da assunti confessionali propone una sua esegesi armonizzante. Il dato di fatto è che le espressioni non sono sinonime.
illustri autori quali E.P. Sanders, Geza Vermes, Dale Allison, Paula Fredriksen e tanti altri [...] su un punto concordano tutti:
Gesù non trascorse il suo ministero a proclamarsi divino.
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Re: Ancora sull'inno ai filippesi 2

Messaggio da Vieri »

a Mario e Valentino;
non ho aggiunto niente ma solo citato in più il Vangelo di Giovanni.
Scrivi :
In sostanza non è che Burk ha dimostrato che Paolo credesse che Gesù fosse Dio e/o che fosse di natura divina ma solo che SE LO PRESUPPONIAMO, la mancanza dell'anafora in Filippesi può non costituire un problema.
Vuoi o non vuoi le due espressioni non sono sinonime.
Sono d'accordo sul fatto che le due espressioni possano essere diverse ma alla fine questo tuo : "LO PRESUPPONIAMO" penso che lasci spazio alle due diverse interpretazioni: di natura umana o di natura divina ( non Dio)
Mario scrive:
Detto questo sebbene io sia il primo ad ammettere che il passo in questione si apre a diverse interpretazioni, pensare che il povero Paolo, figlio di farisei pensasse questo:

"Cristo, la seconda Persona della Trinità, non ha cercato di strappare un'uguaglianza con Dio ( Padre ) che appartiene propriamente solo alla prima Persona della Trinità.
Che poi l'autore faccia delle sue estrapolazioni sulla Trinità posso anche darti ragione ma per me rimane sempre certo che sia gli apostoli che Paolo, si siano posti subito dopo la resurrezione l'interrogativo che Gesù non fosse completamente umano ma non certamente Dio per il fatto che erano tutti convintamente monoteisti e non per niente Pietro disse:
Matteo 16
15Disse loro: «Voi chi dite che io sia?». 16Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». 17E Gesù: «Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli.
In breve si confermerebbe, in queste parole, la differenza fra l'interpretazione ebraica delle parole "figlio di Dio" come semplice titolo onorifico rispetto invece alla sua diretta discendenza da Dio intesa dagli apostoli e poi da tutta la cristianità.

Nell'articolo trovo ancora_
Alla fine, se indipendentemente dal concetto di trinità che avverrà successivamente, parrebbe accertato che l'autore volesse indicare che Se l'autore avesse voluto equiparare le due frasi, avrebbe potuto semplicemente affermare che, sebbene esistesse nella forma di Dio, non considererebbe l'essere nella forma di Dio come una cosa a cui aggrapparsi ( ἐν μορφῇ θεοῦ ὑπάρχων οὐχ ἁρπαγμὸν ἡγήσατο τὸ εἶναι ἐν μορφῇ θεοῦ/ ).

Tuttavia, il fatto stesso che l'autore abbia scelto di utilizzare una fraseologia diversa indica che egli desidera denotare realtà diverse, non sinonimi.

Sorge allora la questione di come questa frase possa essere teologicamente intelligibile; come può avere senso questa interpretazione dato che μορφῇ θεοῦ si riferisce all'essenza preesistente di Cristo come divinità? L'uguaglianza di Cristo con Dio ( τὸ εἶναι ἴσα θεῶ'/ ) non dovrebbe essere considerata solo un altro modo di riferirsi alla sua essenza preesistente come divinità ( μορφῇ θεοῦ )?
La risposta all'ultima domanda è “no” se consideriamo la possibilità che μορφῇ θεοῦ si riferisca all'essenza mentre τὸ εἶναι ἴσα θεῶ'/ si riferisca alla funzione.
“Se questo è il significato del testo, allora i due non sono sinonimi: sebbene Cristo fosse la vera divinità, non usurpò il ruolo del Padre”.40
L'articolo conclude poi:
Qualunque sia la nostra conclusione su questo testo, dobbiamo concordarla Fil 2:6rappresenta una delle affermazioni più sublimi della cristologia in tutto il Nuovo Testamento. In esso vediamo l'amore umiliato del Figlio di Dio manifestato nella sottomissione preincarnata al Padre. Qui viene esposto il grande paradigma della sottomissione a Dio Padre. Ecco Cristo, in tutta la sua esaltata modestia, che mostra la schiva obbedienza che avrebbe caratterizzato tutta la sua vita e la sua opera terrena. E qui vediamo che la sua magnifica obbedienza non è nata in una mangiatoia di duemila anni fa, ma è nata nell'eternità, nel mistero glorioso intratrinitario.
Non una conclusione ma una CONSTATAZIONE.

In pratica abbiamo visto che in molti casi, tra cui questo della lettera ai Filippesi, la diversa interpretazione di una sola parola, da diversi studiosi, possa alla fine fornire significati completamente diversi fra loro di notevole rilevanza cambiando anche la storia del cristianesimo nel primo secolo e dando forse ragione a papa Ratzinger
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Re: Ancora sull'inno ai filippesi 2

Messaggio da Valentino »

Vieri ha scritto: 23/01/2024, 21:40a Mario e Valentino;
non ho aggiunto niente ma solo citato in più il Vangelo di Giovanni.
Scusa Vieri, ma "citato in più" non significa aggiungere?!?!
Hai aggiunto al testo una citazione dal vangelo di Giovanni e giustamente Mario ti ha spiegato che non ha alcun senso farlo.
Non è che se citi il vangelo di Giovanni capiamo quello che affermava e credeva Paolo di Tarso!
Vieri ha scritto: 23/01/2024, 21:40Sono d'accordo sul fatto che le due espressioni possano essere diverse
Non solo sono formalmente diverse, ma non sono nemmeno sinonime ed hanno significati distinti non sovrapponibili, tanto è vero che Burk per "far quadrare i conti" partendo da un presupposto dogmatico è costretto a ricorrere alla nozione di "subordinazionismo funzionale"!
Vieri ha scritto: 23/01/2024, 21:40ma alla fine questo tuo : "LO PRESUPPONIAMO" penso che lasci spazio alle due diverse interpretazioni: di natura umana o di natura divina ( non Dio)
No Vieri.
Non hai capito.
Il punto è un altro.
Una volta determinato che le frasi non sono sinonime ed hanno significati distinti non corrispondenti, Burk spiega in che modo questa constatazione può essere armonizzata con i propri presupposti dogmatici. Del resto Burk, in tutta onestà, nel suo articolo non ha fatto mistero del fatto che parte da certi "presupposti", ovvero da degli "assunti".
Vieri ha scritto: 23/01/2024, 21:40Che poi l'autore faccia delle sue estrapolazioni sulla Trinità posso anche darti ragione
Non è che puoi "darmi ragione"!
E' lo stesso Burk che ammette di partire da determinati "assunti" o "presupposti".
Vieri ha scritto: 23/01/2024, 21:40ma per me rimane sempre certo che sia gli apostoli che Paolo, si siano posti subito dopo la resurrezione l'interrogativo che Gesù non fosse completamente umano ma non certamente Dio per il fatto che erano tutti convintamente monoteisti e non per niente Pietro disse:
Esatto Vieri.
Gli apostoli e lo stesso Paolo di Tarso non credevano che Gesù fosse Dio e non credevano che Gesù fosse di natura divina.
Credevano che dopo la sua morte Dio lo aveva resuscitato e lo aveva anche esaltato intronizzandolo nei cieli: in termini tecnici si chiama appunto cristologia dell'esaltazione.
Paolo di Tarso non credeva che Gesù fosse Dio, non credeva che fosse di natura divina, non credeva nemmeno che fosse un angelo, ovvero non credeva che fosse un essere celeste. Secondo Paolo di Tarso, Gesù è diventato un "essere celeste" in un secondo momento, ovvero appunto dopo la sua resurrezione ed intronizzazione celeste.

Infatti se da una parte: "Gesù non si è proclamato 'Dio'",Immagine
Karl-Josef Kuschel, "Generato prima di tutti i secoli?", Queriniana.
Questo fatto è riconosciuto da tutti gli storici a prescindere se siano studiosi agnostici, protestanti, atei, cattolici o anglicani.
Vieri ha scritto: 23/01/2024, 21:40Matteo 16
15Disse loro: «Voi chi dite che io sia?». 16Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». 17E Gesù: «Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli.
Vieri in questo versetto del vangelo di Matteo non c'è scritto che Gesù sia Dio e non c'è scritto che sia di natura divina.
In questo versetto c'è scritto che Pietro ha riconosciuto in Gesù il Messia, ovvero il Cristo, tanto è vero che usa il titolo messianico di "figlio di Dio" come sinonimo di Cristo, che significa appunto Messia. Messia, Cristo e figlio di Dio, sono usati in questo versetto come sinonimi, perché appunto il titolo figlio di Dio, all'epoca degli apostoli ed all'epoca della redazione del vangelo di Matteo non aveva il significato che assunse centinaia di anni dopo in un contesto del tutto diverso.
Vieri ha scritto: 23/01/2024, 21:40In breve si confermerebbe, in queste parole, la differenza fra l'interpretazione ebraica delle parole "figlio di Dio" come semplice titolo onorifico rispetto invece alla sua diretta discendenza da Dio intesa dagli apostoli e poi da tutta la cristianità.
Vieri, nel versetto il termine Cristo (che significa Messia) e l'espressione "figlio di Dio" sono usati come sinonimi.
Viene affermato semplicemente che Pietro aveva riconosciuto in Gesù il Messia.
In effetti: "L'espressione "figlio di Dio" ai tempi di Gesù [...] non ha il significato che assumerà in seguito per i dogmi cristiani, vale a dire una persona che sia un uomo e nello stesso tempo Dio". (C. Augias, M. Pesce, Inchiesta su Gesù, pp. 90-91).
Vieri ha scritto: 23/01/2024, 21:40Non una conclusione ma una CONSTATAZIONE.
Vieri l'unica cosa che si può constatare è che Burk ha stabilito che "in forma di Dio" e l' "essere come Dio" NON sono espressioni sinonime e che Wright era in errore, perché grammaticalmente l'articolo determinativo greco TO non ha valore anaforico, ma è usato solo come un marcatore sintattico.
Burk ha pure precisato che parte da alcuni presupposti confessionali ed ha cercato semplicemente un modo per armonizzare l'evidenza dei fatti (ovvero che "forma di Dio" NON significa "essere come Dio") con i suoi presupposti! Molto onesto in questo a dire la verità!
Vieri ha scritto: 23/01/2024, 21:40In pratica abbiamo visto che in molti casi, tra cui questo della lettera ai Filippesi, la diversa interpretazione di una sola parola, da diversi studiosi, possa alla fine fornire significati completamente diversi fra loro di notevole rilevanza cambiando anche la storia del cristianesimo nel primo secolo e dando forse ragione a papa Ratzinger
Vieri in realtà abbia visto semplicemente che non c'è un nesso anaforico tra l'espressione "forma di Dio" ed "essere come Dio" e che le due espressioni hanno significati distinti.
Ed è proprio quello che ha dimostrato Burk.
illustri autori quali E.P. Sanders, Geza Vermes, Dale Allison, Paula Fredriksen e tanti altri [...] su un punto concordano tutti:
Gesù non trascorse il suo ministero a proclamarsi divino.
B. Ehrman

Gesù non fu cristiano fu ebreo. J. Wellhausen

I soli uomini a vivere, lungo tutto il medioevo, a imitazione di Gesù furono gli ebrei. K. Jaspers

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Re: Ancora sull'inno ai filippesi 2

Messaggio da Vieri »

Valentino:
Scusa Vieri, ma "citato in più" non significa aggiungere?!?!
Hai aggiunto al testo una citazione dal vangelo di Giovanni e giustamente Mario ti ha spiegato che non ha alcun senso farlo.
Non è che se citi il vangelo di Giovanni capiamo quello che affermava e credeva Paolo di Tarso!

Era solo per precisazione al suo riferimento

Poi, come al solito scrivi:
Esatto Vieri.
Gli apostoli e lo stesso Paolo di Tarso non credevano che Gesù fosse Dio e non credevano che Gesù fosse di natura divina.
Credevano che dopo la sua morte Dio lo aveva resuscitato e lo aveva anche esaltato intronizzandolo nei cieli: in termini tecnici si chiama appunto cristologia dell'esaltazione.
Paolo di Tarso non credeva che Gesù fosse Dio, non credeva che fosse di natura divina, non credeva nemmeno che fosse un angelo, ovvero non credeva che fosse un essere celeste. Secondo Paolo di Tarso, Gesù è diventato un "essere celeste" in un secondo momento, ovvero appunto dopo la sua resurrezione ed intronizzazione celeste.
Che Gesù non avesse mai detto di essere Dio, sono d'accordo ma che non avesse mai fatto intendere di avere una stretta correlazione con il Padre in qualità di Figlio, lo sai che non sono mai stato d'accordo e nemmeno con il solito: "tutto il resto"....ed è inutile che riporti sempre le tue affermazioni e gli stessi autori citati fino alla noia...lo sappiamo già e se lo riporti alla fine 100 volte non per questo diventa una verità... :ironico:
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Re: Ancora sull'inno ai filippesi 2

Messaggio da Valentino »

Caro Mario,
Mario70 ha scritto: 19/01/2024, 19:18questo perché crea più problemi al contesto pensare che Paolo lo credesse addirittura Dio, anche perché è proprio Dio che alla fine lo esalta.
Quanto hai scritto mi ha fatto tornare in mente i rilievi di Dustin R. Smith che osserva che l'encomio di Filppesi 2:6-11: «[...] ha uno scopo specifico, stabilito in Fil 2:5, che è quello di fornire per i destinatari Filippesi di Paolo un modello morale da credere, assimilare e imitare. I lettori dovevano possedere lo spirito di umiltà all'interno della loro comunità cristiana "che era anche in Cristo Gesù". In altre parole, Paolo si aspetta che l'umiltà mostrata da Cristo Gesù sia qualcosa da emulare e ragionevolmente da vivere. Se è così, allora una lettura di Fil 2:6-7 che insiste sul fatto che un essere preesistente (di solito Dio) abbia deciso di diventare uomo e di morire sulla croce non offre un modello plausibile da imitare. Come possono i credenti emulare l'assunzione dell'umanità? Suggerisco che questa interpretazione è abbastanza problematica da giustificare un esame delle interpretazioni che insistono sul fatto che Paolo descrive la vicenda terrena di "Cristo Gesù", una designazione che non indica mai una preesistenza personale. Numerosi studiosi hanno concluso che in Fil 2 non c'è preesistenza».
C. L. Irons, D. A. Dixon, D. R. Smith, The Son of God, Three Views of the Identity of Jesus, Wipf and Stock Publishers, Eugene, OR, 2015, pp. 175-176, tradotto dall'inglese.

Come opportunamente sintetizzano Elena Di Pede e André Wénin: «Nella prima parte dell'inno, due strofe evocano l'avventura di Gesù considerata sotto due punti di vista diversi e complementari: quello di Dio e quello degli uomini. La prima mostra che, in quanto «forma» - immagine - di Dio, Gesù è il vero Adamo; egli non cade nel tranello della rivalità con Dio».
Inoltre aggiungono: «Nella seconda strofa, lo stesso Gesù viene visto come uomo inserito in una storia: sotto lo sguardo degli altri uomini che lo vedono come uno di loro, egli si umilia adottando un atteggiamento di ascolto obbediente, senza abbandonare questa scelta, la cui radicalità lo conduce alla morte; così egli si comporta […] all'opposto di Adamo, che ha trasgredito l'ordine ricevuto, cosa che gli è valsa la morte».
FONTE: E. Di Pede – A. Wénin, Le Christ Jésus et l’humain de l’Éden. L’hymne aux Philippiens (2,6-11) et le début de la Genèse, op. cit., p. 240, tradotto dal francese.

Questo parallesimo sottolineato dalla Di Pede e Wenin, era stato già osservato e sottolineato da Talbert alla fine degli anni 60.
Talbert infatti scriveva: «il parallelismo formale tra le prime due strofe sia la chiave per comprenderne il significato. Infatti, qualsiasi interpretazione che le consideri diverse non solo nella forma ma anche nel significato va contro tutte le indicazioni fornite dall'autore dell'inno, accettando come spiegazione meno probabile quella che è più probabile dal punto di vista linguistico. […] Il fatto che il parallelismo tra le prime due strofe sia volto a indicare un significato comune è significativo perché non c'è dubbio che la seconda strofa parli dell'esistenza umana di Gesù. Ciò significherebbe che anche la prima strofa non riguarda la preesistenza di Gesù, ma piuttosto la sua vita terrena. La prima strofa afferma che Gesù, a differenza di Adamo, non cercò l'uguaglianza con Dio, ma piuttosto consegnò la sua vita a Dio. La seconda strofa afferma che Gesù, come figlio di Adamo, consegnò la sua vita a Dio. Entrambe riguardano la decisione di Gesù di essere servo di Dio piuttosto che ripetere la tragedia di Adamo e dei suoi discendenti».
C. H. Talbert, The Problem of Pre-Existence in Philippians 2:6-11, op. cit., p. 153, tradotto dall'inglese.
illustri autori quali E.P. Sanders, Geza Vermes, Dale Allison, Paula Fredriksen e tanti altri [...] su un punto concordano tutti:
Gesù non trascorse il suo ministero a proclamarsi divino.
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Re: Ancora sull'inno ai filippesi 2

Messaggio da GioGian »

Valentino ha scritto: 01/03/2024, 20:13 Caro Mario,
Mario70 ha scritto: 19/01/2024, 19:18questo perché crea più problemi al contesto pensare che Paolo lo credesse addirittura Dio, anche perché è proprio Dio che alla fine lo esalta.
Quanto hai scritto mi ha fatto tornare in mente i rilievi di Dustin R. Smith che osserva che l'encomio di Filppesi 2:6-11: «[...] ha uno scopo specifico, stabilito in Fil 2:5, che è quello di fornire per i destinatari Filippesi di Paolo un modello morale da credere, assimilare e imitare. I lettori dovevano possedere lo spirito di umiltà all'interno della loro comunità cristiana "che era anche in Cristo Gesù". In altre parole, Paolo si aspetta che l'umiltà mostrata da Cristo Gesù sia qualcosa da emulare e ragionevolmente da vivere. Se è così, allora una lettura di Fil 2:6-7 che insiste sul fatto che un essere preesistente (di solito Dio) abbia deciso di diventare uomo e di morire sulla croce non offre un modello plausibile da imitare. Come possono i credenti emulare l'assunzione dell'umanità? Suggerisco che questa interpretazione è abbastanza problematica da giustificare un esame delle interpretazioni che insistono sul fatto che Paolo descrive la vicenda terrena di "Cristo Gesù", una designazione che non indica mai una preesistenza personale. Numerosi studiosi hanno concluso che in Fil 2 non c'è preesistenza».
C. L. Irons, D. A. Dixon, D. R. Smith, The Son of God, Three Views of the Identity of Jesus, Wipf and Stock Publishers, Eugene, OR, 2015, pp. 175-176, tradotto dall'inglese.

Come opportunamente sintetizzano Elena Di Pede e André Wénin: «Nella prima parte dell'inno, due strofe evocano l'avventura di Gesù considerata sotto due punti di vista diversi e complementari: quello di Dio e quello degli uomini. La prima mostra che, in quanto «forma» - immagine - di Dio, Gesù è il vero Adamo; egli non cade nel tranello della rivalità con Dio».
Inoltre aggiungono: «Nella seconda strofa, lo stesso Gesù viene visto come uomo inserito in una storia: sotto lo sguardo degli altri uomini che lo vedono come uno di loro, egli si umilia adottando un atteggiamento di ascolto obbediente, senza abbandonare questa scelta, la cui radicalità lo conduce alla morte; così egli si comporta […] all'opposto di Adamo, che ha trasgredito l'ordine ricevuto, cosa che gli è valsa la morte».
FONTE: E. Di Pede – A. Wénin, Le Christ Jésus et l’humain de l’Éden. L’hymne aux Philippiens (2,6-11) et le début de la Genèse, op. cit., p. 240, tradotto dal francese.

Questo parallesimo sottolineato dalla Di Pede e Wenin, era stato già osservato e sottolineato da Talbert alla fine degli anni 60.
Talbert infatti scriveva: «il parallelismo formale tra le prime due strofe sia la chiave per comprenderne il significato. Infatti, qualsiasi interpretazione che le consideri diverse non solo nella forma ma anche nel significato va contro tutte le indicazioni fornite dall'autore dell'inno, accettando come spiegazione meno probabile quella che è più probabile dal punto di vista linguistico. […] Il fatto che il parallelismo tra le prime due strofe sia volto a indicare un significato comune è significativo perché non c'è dubbio che la seconda strofa parli dell'esistenza umana di Gesù. Ciò significherebbe che anche la prima strofa non riguarda la preesistenza di Gesù, ma piuttosto la sua vita terrena. La prima strofa afferma che Gesù, a differenza di Adamo, non cercò l'uguaglianza con Dio, ma piuttosto consegnò la sua vita a Dio. La seconda strofa afferma che Gesù, come figlio di Adamo, consegnò la sua vita a Dio. Entrambe riguardano la decisione di Gesù di essere servo di Dio piuttosto che ripetere la tragedia di Adamo e dei suoi discendenti».
C. H. Talbert, The Problem of Pre-Existence in Philippians 2:6-11, op. cit., p. 153, tradotto dall'inglese.
bah, Valentino, anche a me è successo che non mi ha risposto nessuno, ma credo sia indice che il discorso proposto, specialmente se non polemico ma semplicemente solido, in qualche modo funziona. Quanto al tuo, solido lo è, e nel segno del buon senso. Ma basta tornare alle premesse e metterci dal punto di vista di Paolo. Paolo credeva di star parlando di una nuova alleanza? Se no, ogni cosa fin qui detta significa poco, come pure il suo risalire ad Adamo, ecc. Se sì, Paolo sa bene che ogni alleanza nasce per iniziativa di Dio, non di uomini o addirittura di un singolo, per quanto servo, eroe, eccezione. Come può dunque essere intenzione di Paolo che il significato dell'Inno ci indichi il contrario?
Pare infatti che l'inno si riferisca a qualcosa, ad una servitù volontariamente affrontata come tale fin dal principio, ad un destino preso di petto, fino alla morte. Vuole Paolo edificare, indicare ai fratelli un tipo di servitù esemplare? Servirebbe la loro imitazione, la loro morte, a far cambiare idea a Dio? O sta dicendo esattamente l'opposto, che Dio provvede l'agnello, al loro posto, al posto dei fratelli a cui parla, cioè al posto di Isacco? I fratelli non sono solo da edificare, ma prioritariamente da salvare da morte certa.
Proprio questa è la differenza con la religione del faraone o degli altri pagani. Loro credono di offrire del loro ai loro dei, invece Abramo deve capire che non ha niente di suo, niente che non gli sia pervenuto dal suo Dio. Perciò Dio stesso provvede l'agnello.
Era questo ciò cui Gesù alludeva a proposito del segno di Giona. Non stava parlando di un sacrificio umano, ma di un sacrificio per evitare la morte certa degli umani. L'offerta dell'agnello provveduto da Dio per la resurrezione di tutti gli Isacco, di tutti i figli di Adamo, di cui la propria sarebbe stata il segno.
Se Paolo non credeva questo allora non credeva nemmeno in una nuova alleanza, è logico.
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Re: Ancora sull'inno ai filippesi 2

Messaggio da Valentino »

Nel contesto parenetico dell'epistola ai Filippesi la funzione retorica di questo encomio è appunto quella dell'exemplum.
È sufficiente leggere i versetti precedenti.
illustri autori quali E.P. Sanders, Geza Vermes, Dale Allison, Paula Fredriksen e tanti altri [...] su un punto concordano tutti:
Gesù non trascorse il suo ministero a proclamarsi divino.
B. Ehrman

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Re: Ancora sull'inno ai filippesi 2

Messaggio da GioGian »

Valentino ha scritto: 16/03/2024, 12:39 Nel contesto parenetico dell'epistola ai Filippesi la funzione retorica di questo encomio è appunto quella dell'exemplum.
È sufficiente leggere i versetti precedenti.
giusto, e prima ancora parla in tutta tranquillità di "vanto". Paolo è più complesso e più intelligente di così, credo. E questa cosa è perfino piacevole. In fondo, come sfuggiva allora a chi avesse voluto accusarlo con prove certe (come il contenuto di una propria missiva), sfugge tuttora. Invece egli sta parlando molto chiaro a chi, avendo inteso il fondamento, ha orecchi per intendere il resto.
Considerato che in quel momento si trovava addirittura in galera, la critica testuale si ingegna a scoprire l'acqua calda perché, per pacifica ammissione, non può occuparsi del sottinteso. Anzi, come farebbe un buon avvocato difensore e come sapeva fare bene all'occorrenza Paolo da sé, usa il testo per negare il sottinteso. Ma senza sottinteso l'intero discorso non ha senso, come comprende chi ha orecchi, e ce li ha perché già ne conosce il fondamento. Quel fondamento è tutto in, e per, Paolo, sin dai tempi del disarcionamento (e del tradimento dei propri mandanti) sulla via di Damasco.
Se fossimo stati intelligenti e cittadini romani come Paolo, avremmo scritto lettere alla sua maniera e con le sue accortezze. In mancanza di quei due requisiti, non avremmo scritto un bel niente, cone fecero tutti gli altri prima della rivolta giudaica.
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