Non dimentichiamoci che Il Regno delle due Sicilie era una NAZIONE!! Quindi aveva la sua lingua come uno stato o una nazione propria .
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La lingua napoletana[2] (napulitano) è un idioma romanzo che, accanto all'italiano, è correntemente parlato nelle sue molteplici variazioni diatopiche in Italia meridionale; più precisamente nelle regioni della Campania, della Basilicata, della Calabria settentrionale, dell'Abruzzo, del Molise, della Puglia e nel Lazio meridionale, al confine con la Campania. Si tratta di tutti quei territori che, nelle antiche Due Sicilie, costituivano il Regno al di qua del faro di Messina, laddove la lingua nazionale era appunto il napolitano, mentre il siciliano quella del Regno al di là del faro (Sicilia).[3]
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UNESCO IL DIALETTO NAPOLETANO È LA SECONDA LINGUA NAZIONALE ITALIANA
Saranno in tanti ad esserne fieri, poeti narratori, cantanti editori e semplici cittadini nel sapere che l'UNESCO ha dichiarato che il dialetto napoletano è da paragonarsi a lingua. Parlato in quasi tutte le regioni, la lingua napoletana è di fatto parte oltre che della Campania del basso Lazio, dell'Abruzzo e del Molise, della Puglia e Calabria. Ha avuto le sue origini sin dai tempi di Pompei, e continuato da Federico II fino al tempo degli aragonesi. Con l'arrivo e la dominazione dagli spagnoli è stata la lingua amministrativa e dello stato. Il Napoletano ha avuto nel tempo molti cambiamenti e influenze, ma è sempre restata originale la sua matrice. Fin quando non arrivarono i Savoia
Con l'arrivo di Garibaldi e la fine del Regno delle due Sicilie il napoletano fu sostituito ufficialmente dalla lingua Italiana, anche se nel Piemonte la lingua amministrativa in uso era il francese, nei primi anni del 900' ci fu anche chi propose nel parlamento piemontese l'abolizione ufficiale del dialetto partenopeo e, mano a mano che il tempo passava il napoletano, anche osteggiato dallo Stato stesso, restò solo una lingua usata da malavitosi, briganti e guappi, questo almeno secondo le nuove nobiltà che prendevano piede nell'ex regno delle due Sicilie
Negli anni la lingua napoletana ha avuto tante variazioni, i puristi direbbero "influenze volgari" ma è stata ispiratrice di grandi poeti e scrittori che ne hanno fatto uso a mani basse. Secondo gli storici e linguisti, il dialetto napoletano può tranquillamente essere considerata la seconda lingua ufficiale in Italia, grazie anche alle canzoni che hanno girato in tutto il mondo e alle commedie più rappresentative di Eduardo tradotte in tante lingue, inglese, russo, francese e anche in Cina. Nessun dialetto è così popolare è, pertanto l'UNESCO ha dichiarato che è lingua da preservare e da tutelare.
Secondo l'organismo internazionale è un errore quello di volerlo cancellare e liquidarlo facilmente come un dialetto, in effetti sempre più spesso a dichiarazioni di persone che usano il napoletano sentiamo consigliare "parla Bene" ecco, con questa dichiarazione di protezione l'UNESCO da di nuovo fiato a coloro che amano esprimersi nella lingua del sud Italia e, ben compresa, non solo nelle altre regioni italiane, ma in tutto il mondo.
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La lingua napoletana
Il napoletano, o meglio, il napolitano è una "lingua" o un "dialetto"?
Ci siamo posti il problema nella nostra pagina lingua o dialetto, cercando di trovare una risposta; in quella stessa pagina abbiamo anche pubblicato un articolo tendenzialmente favorevole ad una valutazione del napoletano quale dialetto.
Qui proponiamo per i nostri lettori, nel rispetto della par condicio, un articolo di Massimo Cimmino pubblicato sulla rivista L'Alfiere (ringraziamo il suo direttore Vitale per averci concesso la possibilità di proporre l'intevento) caratterizzato da conclusioni completamente diverse.
L'unità linguistica delle Due Sicilie
di Massimo Cimmino
Il forzato processo di unificazione della penisola italiana non poteva trascurare un elemento di fondamentale rilievo distintivo delle culture nazionali preunitarie: la lingua. La persistenza, in particolare, delle lingue napolitana, siciliana, veneta accanto a quella toscana, peraltro già da tempo generalmente adottata nella penisola nella stesura degli atti e dei documenti amministrativi, oltre che diffusa in campo letterario, era considerata incompatibile con il programma della cosiddetta "unità d'Italia".
Di pari passo con la repressione della resistenza armata all'invasore piemontese, si conduce dunque una vera e propria guerra contro le lìngue parlate negli stati preunitari, che bandite da ogni ufficialità, vengono qualificate "dialetti", ossia lingue diffuse in limitate aree geografiche, e, solo come tali, tollerate nell'uso familiare, soprattutto nell'ambito dei ceti popolari.
Già, perché l'alta e media borghesia, che detiene la proprietà delle terre, che controlla i commerci e che esercita le professioni cosiddette liberali, si associa immediatamente ai nuovi potenti in questa opera di repressione linguistica, imponendo al popolo questo ulteriore sopruso allo scopo di consolidare il proprio status sociale e i vantaggi che ne derivano.
D'altra parte, venendo in particolare alla lingua napolitana, questa è la lingua parlata dai Sovrani di Casa Borbone, che, a cominciare da Ferdinando I e diversamente da precedenti monarchi, sono dei Re nazionali, sono e si sentono napolitani; il che li lega indissolubilmente al popolo, che sviluppa nei loro confronti uno spiccato senso di appartenenza, emblematicamente riassunto nel grido "Viva 'o rre nuosto!" , opposto a chi sì schiera con il re piemontese, avvertito come "altro", come straniero, parlante un idioma incomprensibile e tuttalpiù il francese.
La borghesia medioalta, invece, diviene – per le ragioni anzidette - un alleato formidabile dei piemontesi in quest'opera di omologazione linguistica, che utilizza precipuamente la scuola come strumento di diffusione della lingua toscana, prontamente ribattezzata "italiana".
Nascono così espressioni che si sentono ancora oggi ripetere, da parte di tanti maestri, insegnanti e genitori, ali'indirizzo di bambini e ragazzi che, nonostante tutto, parlano napolitano: "Parla bene!", "Non si parla in napoletano!", "Non parlare in dialetto!", "Parla pulito!" e via dicendo. L'abiura della lingua napolitana da parte dei ceti medio-alti ha avuto, inoltre, come logica conseguenza, che solo la piccola borghesia e le classi popolari abbiano continuato ad usarla sino ai giorni nostri come lingua madre, sia pure frammista a vocaboli d'importazione toscana e, più di recente, angloamericana. Si pensi, ad esempio, ai contesti in cui Eduardo De Filippo ambienta le proprie commedie ed al linguaggio (un misto di napolitano e di "pulito"), che fa utilizzare ai propri personaggi. Dal che è derivata una visione dispregiativa del napolitano, inteso come lingua del volgo e, come tale, non usabile dalle persone perbene. In aggiunta a quanto detto, la cosiddetta unità ha comportato l'imposizione di modelli del tutto estranei alla cultura dei cittadini del Regno delle Due Sicilie, quali ad esempio:
1) l'adozione nella pratica amministrativa, e negli elenchi nominativi militari, scolastici et similia del criterio alfabetico basato sul cognome, in luogo di quello onomastico, sempre usato in precedenza ; si pensi che a tale criterio era informato persino il Catasto Onciario, la grande riforma fiscale voluta nella prima metà del Settecento dal Re Carlo di Borbone, Catasto nell'ambito del quale gli elenchi dei "cittadini contribuenti" di ciascuna Università o Comune sono ordinati in base ai rispettivi nomi di battesimo, non ai cognomi;
2) l'introduzione dì una compitazione quasi esclusivamente basata su nomi di città centrosettentrionali ("A" come Ancona, "B" come Bergamo, "C" come Como...), fino alla paradossale associazione della lettera "D" ad uno sconosciuto paese della Val d'Ossola, Domodossola. che da quel momento ha acquisito una sia pur nominale notorietà, rimanendone peraltro ignota ai più l'esatta ubicazione. L'ostracismo decretato per fini unitari nei confronti della lingua napolitana ha prodotto, infine, un'inevitabile damnatio memoriae, che ha travolto tutto ciò che questa lingua, sul piano poetico, prosastico, letterario in genere, aveva prodotto nel corso di molti secoli.
(seconda parte)
di Massimo Cimmino
Quanto detto è stato attuato, in particolare, inducendo l'erronea convinzione che le lingue preunitarie dovessero considerarsi semplicemente "dialetti", intesi quali versioni regionali dell'unica lingua degna di questa nome, il toscano, ufficializzato come "lingua italiana".
Ma, a ben vedere, si è fatto strumentalmente ricorso ad un'accezione del tutto secondaria del termine "dialetto", che, derivato dal greco diàlektos, ha il primigenio significato di "discussione": basti pensare che la dialettica è appunto l'arte della discussione.
La differenza tra lingua e dialetto, in effetti, è di ordine politico-sociale, non linguistico. Il linguista norvegese Binar Haugen (1906 - 1994) ha provocatoriamente liquidato questa distinzione affermando testualmente che: "Una lingua è un dialetto con alle spalle un esercito e una flotta".
Invero, il napolitano ed il siciliano sono lingue romanze derivate - al pari del toscano - direttamente dal latino. Secondo una classificazione linguistica piuttosto diffusa, tali lingue (toscana, napoletana e siciliana) apparterrebbero al ceppo cosiddetto dei "dialetti centro-meridionali", geograficamente distinto dal ceppo dei "dialetti settentrionali" (suddistinti in gallo-italici e veneti) da uno spartiacque che si ottiene tracciando una linea ideale che parte da Massa e finisce a Senigallia, più o meno ricalcante la cosiddetta "linea gotica".
A fronte di questa teoria, intesa a far rientrare queste lingue in una cornice comunque "italiana", vi è quella, di più ampio respiro, sostenuta dallo svizzero Walther von Wartburg (Riedholz, Soletta, 1888 - Riehen, Basilea, 1971), e più tardi ripresa dal tedesco Heinrich Lausberg (Aquisgrana 1912 - Munsler 1992). Questi insigni studiosi di linguistica dividono l'area in cui sono parlate le lingue romanze in due grandi settori: la Romània occidentale, nella quale rientrano le lingue parlate nella parte continentale dell'Italia geografica, e la Romània orientale, che comprende, tra le altre, le lingue parlate nella parte peninsulare di quest'ultima, nonché il corso ed il siciliano.
Va ricordato, a questo punto, che l'abate Ferdinando Galiani, famoso economista e letterato, nella sua opera "Del dialetto napoletano", data per la prima volta alle stampe nel 1779, rivendica il primato della poesia in "volgare" alla cosiddetta "scuola siciliana", un movimento culturale formatosi alla corte di Federico II di Hohenstaufen tra il 1230 ed il 1250. Principale esponente di tale scuola fu Jacopo da Lentini (1210-1260), che Dante nella "Commedia" chiamerà "il Notaro" (Purgatorio, Canto XXIV, 56). Questa tesi è oggi unanimemente condivisa dagli studiosi della materia, dovendosi precisare che la lingua usata dai poeti siciliani era in realtà il napolitano, detto anche "pugliese" per essere all'epoca la Puglia la più importante regione del Regno. Alcune canzoni citate da Dante nel De vulari eloquentia contengono espressioni prettamente napolitane. Galiani fonda il primato del napolitano sulla presenza nella nostra lingua del maggior numero di vocaboli di immediata derivazione latina. Volendo fare un solo esempio tra tanti, basti pensare ai termini di cummare e cumpare, che, con la sola elisione della lettera "t", riproducono le espressioni cum matre e cum patre, stando ad indicare coloro che condividono con la madre e, rispettivamente, con il padre, la responsabilità dell'educazione del figlio.
D'altra parte, la stessa precedenza data nella nostra cultura al nome proprio rispetto al cognome affonda le sue radici nella latinità. I romani, infatti, individuavano la persona - nell'ordine - con il praenomen, corrispondente al nostro nome di battesimo, con il nomen, che designava la gens di appartenenza, ed infine con il cognomen, equivalente al nostro soprannome. La tesi del Galiani trova conforto nella considerazione che i primi documenti ufficiali in "volgare" sono i cosiddetti "placiti cassinesi", contenenti dichiarazioni giurate scritte in napolitano, risalenti al periodo che va dal 960 al 963 ed aventi ad oggetto l'appartenenza di certe terre ai monasteri benedettini di Capua, Sessa e Teano. Con i re aragonesi, poi, il napolitano acquista dignità di lingua ufficiale, sostituendo il latino negli atti e nei documenti. Nei secoli successivi, pur rientrando il Regno nell'orbita dell'impero spagnolo, si assiste nondimeno ad una notevole produzione letteraria in lingua napoletana, nell'ambito della quale giganteggiano le figure di Giulio Cesare Cortese (Napoli, 1570-1640), autore tra l'altro de La Vaiasseide, e di Giambattista Basile (Giugliano, 1566-1632), che ne Lo cunto de li curiti ovvero Lo trattienemento de li piccirilli raccoglie per la prima volta le fiabe più celebri (da Cenerentola alla ), fiabe che ispireranno poi molti favolisti della moderna cultura europea, quali Perrault ed i fratelli Grimm.
Merita di essere ricordato Andrea Ferrucci (Palermo, 1651 - Napoli 1704), autore della celebre Cantata dei pastori (1698), recitata nei teatri popolari nella notte di Natale fino all'ottocento ed in anni recenti rivisitata e rappresentata, in particolare da Concetta e Peppe Barra. Tra i poeti di lingua napolitana troviamo anche Alfonso Maria de' Liguori (Marianella, 1696 - Nocera de' Pagani. 1787), il Vescovo poi canonizzato, che scrive e musica il canto natalizio Quanno nascette ninno.
Anche l'opera buffa muove i primi passi, a cavallo tra i secoli XVII e XVIII, in lingua napolitana. Un esempio di questo genere è II trionfo dell'onore di Alessandro Scarlatti (Trapani, 1660 - Napoli, 1725), scritta inizialmente su libretto in napolitano, poi italianizzato.
(terza ed ultima parte)
di Massimo Cimmino
Dopo questo excursus puramente esemplificativo della notevole produzione letteraria in lìngua napolitana nei secoli precedenti l'ottocento, torniamo al discorso iniziale ed osserviamo come proprio a partire dagli anni in cui il nostro Regno perde l'indipendenza, vede saccheggiate le proprie risorse economiche e finanziarie, costretta al'emigrazione una gran parte della popolazione, si assiste alla nascita di una vera e propria poesia napolitana, pienamente autonoma rispetto ad altre correnti letterarie dell'epoca, il cui massimo esponente è Salvatore Di Giacomo (Napoli, 1860 -1934), autore di componimenti poi diventati canzoni, come A Marechiaro, Era de maggio, 'E spingule francese e di numerosi drammi, il più famoso dei quali è senz'altro Assunta Spina.
Ma accanto a Di Giacomo troviamo numerosi altri poeti, quali Ferdinando Russo, Roberto Bracco, Libero Bovio, Rocco Galdieri, Ernesto Murolo e Giovanni Capurro, autore di 'O sole mio, musicata da Eduardo Di Capua e conosciuta in tutto il mondo.
Nell'introduzione alla sua Antologia dei poeti napoletani (1973) Alberto Consiglio afferma testualmente: "...la nazione napoletana compie, dopo la sua morte politica, il suo più grande alto di vita: inventa una poesia, determina una letteratura.".
Già alcuni secoli prima, l'umanista Lorenzo Valla (Roma, 1407-1457) aveva sostenuto l'autonomia della lingua rispetto al potere politico, affermando che lingua e cultura superano la durata delle organizzazioni politiche e statali, la cui nascita e la cui scomparsa sono originate da mutevoli rapporti di forza.
In effetti, questo è lo specchio della situazione determinatasi a seguito della cosiddetta "unità d'Italia": a fronte di un'unificazione meramente politica, calata dall'alto, senza effettiva partecipazione delle popolazioni conquistate, l'identità della nazione napolitana si esprime attraverso la sua lingua, che genera poesie e canzoni, che - grazie anche ai tanti nostri emigranti - avranno fama in tutto il mondo. Nello stesso periodo inizia a svilupparsi il moderno teatro in lingua napolitana, grazie ad autori-attori del calibro di Antonio Petito, insuperato interprete petta. che porta al successo la maschera di Felice Sciosciammocca. Seguiranno nel tempo i fratelli De Filippo, Raffaele Viviani, Antonio De Curtis, in arte Totò, e negli anni a noi più vicini Annibale Ruccello e Massimo Troisi, questi ultimi, purtroppo, entrambi prematuramente scomparsi.
Non possiamo non ricordare, parallelamente, anche il teatro in lingua siciliana. Lo stesso Luigi Pirandello (Agrigento, 1867 - Roma, 1936), vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1934, non sì sottrae all'esigenza di esprimersi nella sua lingua madre e scrive nel 1916 una commedia per il grande attore Angelo Musco (Catania, 1871- Milano, 1937), suo conterraneo, 'A birritta cu 'i cìancianeddi, cui seguirà nel 1918 la versione in italiano, intitolata Il berretto a sonagli, in tempi più recenti trasposta in napolitano e rappresentata anche da Eduardo De Filippo.
La stessa canzone napolitana mantiene tuttora una costante vitalità, che si manifesta sia col recupero delle più aulentiche tradizioni popolari, curato negli ultimi decenni dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare sotto la guida sapiente di Roberto De Simone, ma anche da cantautori come Eugenio Bennato e Teresa De Sio, sia con nuove forme di espressione canora che coniugano la lingua napolitana con ritmi musicali d'importazione: basti pensare a Renato Carosone, a Pino Daniele, a gruppi musicali come gli Almamegretta, i Co'sang, i Fuossera.
La complessità dell'argomento richiederebbe tempi ben più lunghi. Concludo, pertanto, osservando che la difesa dell'identità della nazione napolitana non può prescindere dalia difesa della propria lingua: il napolitano è e deve essere considerato a tutti gli effetti una lingua che, pur nella diversità delle sue sfumature ed inflessioni, è tutt'oggi parlata da circa undici milioni di persone, in un'area che comprende l'Abruzzo, il Molise, il basso Lazio, la Campania, la Lucania, la Puglia e la Calabria settentrionale e che s'identifica sostanzialmente con quella parte continentale del Regno fondato da Ruggero II d'Altavilla nel 1130 e durato per oltre sette secoli, fino al 1861; una lingua ampiamente documentata sia da testi grammaticali che da vocabolari, quali ad esempio quelli curati da Antonio Altamura e da Francesco D'Ascoli.
Lo stesso dicasi per la lingua siciliana e per quelle parlate nel Salente e nella Calabria meridionale (corrispondente alla nostra Provincia della Calabria Ulteriore Prima), che con il siciliano presentano notevoli affinità. Ed è superfluo aggiungere che il napolitano ed il siciliano costituiscono sistemi linguistici strettamente apparentati tra loro dalla comune appartenenza alla Romania orientale. Ma qual è il trattamento che la Repubblica italiana riserva attualmente alla lingua dei nostri padri? Alla lingua che ancora oggi, nonostante tutto, continuano a parlare i nostri figli? Lo stesso di centocinquantuno anni fa, quando il "Piemonte allargato'" pianificò il genocidio culturale, oltre che la sanguinosa repressione, degli abitanti del Regno delle Due Sicilie! In base all'art. 6 della sua Costituzione, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, la Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche. In applicazione di tale norma, solo nel 1999 è stata approvata la Legge n. 482, che introduce la tutela della lingua e della cultura di dodici minoranze definite "storiche" ed ivi elencate: si tratta delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il francoprovenzale, il friulano, il ladino, l'eccitano e il sardo. Nulla si dice dei napolitani, dei siciliani, dei veneti, degli emiliani, dei liguri, le cui lingue restano per il vigente ordinamento confinate nel "ghetto" dei dialetti, come tali escluse da ogni riconoscimento ufficiale. Da notare, in particolare, che la Sicilia è ancora oggi l'unica delle cinque regioni a statuto speciale a non vedere riconosciuta e tutelata la propria lingua.
A fronte di ciò, l'Unesco riconosce al napolitano la dignità di "lingua madre", seconda solo all'italiano, quanto a diffusione, tra quelle parlate nella penisola. E vi sono, peraltro, delle iniziative in taluni ambiti regionali. Ad esempio, in seno al Consiglio Regionale della Campania, durante l'VIII legislatura, è stato presentato il progetto di legge n. 159/1 sulla ''Tutela e valorizzazione della lingua napoletana", ma esso è ancora in via di approvazione.
In definitiva, sgombrato il campo da inesistenti questioni linguistiche, il problema è di natura squisitamente politica: lo Stato italiano concede la dignità di lingua agli idiomi di chi dispone di mezzi di pressione sufficienti a farsi riconoscere come comunità etnico-linguìstica distinta da quella maggioritaria. Sta solo a noi, dunque, batterci per la tutela della nostra lingua, forti di una cultura e di una tradizione plurimillenarie che non hanno certo bisogno di dimostrazioni.
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C'è anche da dire che l'Italiano veniva usato anche prima dell'unità d'Italia ,da persone diciamo non del popolino.