A parte le solite roboanti parole che denotano un netto schieramento politico al quale non sono particolarmente compiacente, il fatto di citare come esempio paesi "civilmente più evoluti" dell'Italia come la Francia e gli USA, come esempio di multiculturalismo, se permetti fanno acqua da tutte le parti e si vede che non hai letto l'articolo citato nel post precedente:
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Le No-go zones in Francia
Secondo lo European Eye on Radicalization (Eer), che ha recentemente disaminato l’argomento delle aree ad accesso vietato al di là delle Alpi, “è difficile [trovare] una città in Francia che non abbia almeno una zona urbana sensibile”. Le zone urbane sensibili, si scriveva, sono 751 in tutta la nazione e sono caratterizzate da elevati indicatori di disagio sociale e abitativo richiedenti attenzione speciale da parte delle autorità perché particolarmente permeabili al narco-banditismo e all’islam radicale.
Le zone urbane sensibili sono la casa di cinque milioni di persone – ovvero circa il 7% della popolazione totale della Francia –, quasi esclusivamente di origine magrebina e subsahariana, e, alla luce dei loro elementi caratterizzanti, possono essere considerate le anticamere dei territori perduti per via della presenza più o meno radicata di circuiti islamisti, delle attività del narco-banditismo e per la frequenza delle violenze anti-poliziesche.
Tali sono i livelli di impermeabilità all’azione pubblica e di ostilità alle forze dell’ordine che, secondo un rapporto citato dallo EER sulle aree ad accesso vietato in Francia, “dozzine di questi quartieri sono dei luoghi in cui la polizia non può far rispettare pienamente le leggi del Paese e neanche entrare senza il rischio di scontri o sparatorie mortali”. L’ultimo agguato in ordine di tempo, avvenuto a Carpentrasso (Vaucluse) la sera del 5 maggio di quest’anno, durante un controllo in una no-go area, ha provocato la morte di un poliziotto.
Strettamente collegato alla questione delle zone urbane sensibili è il tema dei cosiddetti territori perduti, appellativo volutamente declamatorio con cui la Direction générale de la Sécurité intérieure (DGSI), in un rapporto datato gennaio 2020, ha denunciato l’esistenza di almeno 150 i quartieri che sarebbero de iure francesi ma de facto gestiti e controllati da reti legate al narco-banditismo e/o all’islam radicale.
Le No-go zones in Belgio e Germania
In quelle nazioni per le quali non esistono dati a disposizione, come Belgio e Germania, sono i fatti e le denunce provenienti da personaggi di spessore a palesare l’esistenza di un problema con i quartieri ad accesso vietato.
A Bruxelles, capitale belga e cuore delle istituzioni europee, secondo l’ex segretario di Stato Bianca Debaets, “ci sono troppe aree dove è difficile camminare per le donne e per gli omosessuali”, con le prime obbligate ad utilizzare un determinato abbigliamento e con i secondi costretti a nascondere il proprio orientamento sessuale. Non è dato sapere quali e quanti potrebbero essere i suddetti quartieri, la cui presenza è stata segnalata anche ad Antwerp e Anderlecht, ma è noto al pubblico, ad esempio, il caso Molenbeek.
Molenbeek, descritto frequentemente in termini di area ad accesso vietato, è il “quartiere più islamico” di Bruxelles – i residenti musulmani, sostanzialmente di origine marocchina, rappresenterebbero fra il 25% e il 45% della popolazione totale – ed è balzato agli onori delle cronache per la connessione con gli attentati di Parigi del novembre 2015 – quattro degli stragisti provenivano da qui. Il suo curriculum, ad ogni modo, è di gran lunga più longevo e corposo, avendo cresciuto od ospitato alcuni dei jihadisti più sanguinari dell’ultimo ventennio, tra i quali Hassan el Haski (Madrid 2004), Mehdi Nemmouche (Bruxelles 2004), Ayoub El Khazzani (Thalys 2015) e Oussama Zariouh (Bruxelles 2017).
Il quartiere di Molenbeek la notte in cui venne arrestato Salah Abdeslam (LaPresse)
La questione tedesca mostra diverse similitudini con quella belga: la classe politica è riluttante a dare luce verde ad una disamina del fenomeno, e non ha (ancora) pubblicato dati utili a nutrire un dibattito tanto utile quanto necessario, ma non nasconde la veridicità del problema. È stata la stessa Angela Merkel, nel corso di un’intervista datata 2018, ad affermare che “non dovrebbero esserci aree ad accesso vietato, aree in cui la gente ha paura di andare, ma queste aree esistono, vanno chiamate con il loro nome e qualcosa va fatto a riguardo”.
Di nuovo, non è dato sapere quanti potrebbero essere i quartieri che hanno costretto la Merkel a fare una pubblica ammissione, ma è celebre, ad esempio, il caso della “zona controllata dalla sharia” (Shariah Controlled Zone) creata a Wuppertal da un gruppo salafita. E Jens Spahn, titolare del Ministero della Sanità dal 2018, ha dichiarato che “ci sono quartieri a Essen, Duisburg e Berlino dove si ha l’impressione che lo Stato non sia più volente o capace di far rispettare la legge”.
Le No-go zones nei Paesi Bassi
Nei Paesi Bassi sono state censite almeno 40 zone ad accesso vietato, delle quali la più celebre è Schilderswijk. Schilderswijk, localizzata a L’Aia, può essere considerata un’enclave etnica a tutti gli effetti, dato che i censimenti del 2008 e del 2012 hanno appurato come gli olandesi etnici rappresentino poco meno del 10% della popolazione totale, essendo stati quasi completamente rimpiazzati da turchi e marocchini.
Ribattezzata dispregiativamente Sharia-wijk, questa enclave è oggetto di attenzione investigativa sin dall’inizio degli anni Duemila e, nonostante i tentativi di intervento sociale partoriti dalle autorità pubbliche, non ha cessato di essere un focolaio di aspiranti jihadisti. Culla e sede operativa del Gruppo Hofstadt, l’entità dietro all’assassinio del regista Theo van Gogh, Schilderswijk è nota al pubblico olandese per il possesso di un’informale polizia religiosa impegnata a far rispettare le prescrizioni islamiche agli abitanti, per aver ospitato una manifestazione a supporto dello Stato Islamico nel settembre 2014 e per le frequenti rivolte contro le forze dell’ordine – la più celebre ha avuto luogo nel 2015, ed è terminata con oltre duecento arresti, mentre la più recente è avvenuta lo scorso agosto.
Le No-go zones in Svezia e Danimarca
Svezia e Danimarca sono le nazioni dell’area scandinava più colpite dal fenomeno dei quartieri ad accesso vietato, che, similmente alle controparti belghe, francesi, olandesi e tedesche, possono essere descritti come un tutt’uno eterogeneo in cui la presenza autoctona è virtualmente scomparsa e dove disoccupazione ed emarginazione hanno creato terreno fertile per l’attecchimento e l’espansione di organizzazioni islamiste, jihadiste e criminali.
I quartieri ad accesso vietato, almeno ufficialmente, non esistono. In Svezia, ad esempio, le autorità inquadrano le realtà più sensibili e marginali in tre categorie – aree particolarmente vulnerabili, aree vulnerabili e aree a rischio – evitando accuratamente di utilizzare termini quali ghetto e no-go zone, sebbene le prime si connotino, tra le altre cose, per la comprovata presenza di “società parallele” in cui esistono “tribunali alternativi” e dove il controllo del territorio è in mano ad attori nonstatuali.
Localizzate alle estremità periferiche delle principali città, in primis Stoccolma, Malmö e Göteborg, le aree rientranti all’interno delle tre categorie sono 60 (dati 2019) e sono un concentrato di:
Crimine organizzato: residenza del 5,4% della popolazione totale, ospitano mediamente oltre la metà delle sparatorie che avvengono sul suolo nazionale e sono la casa di almeno 200 gruppi criminali composti da circa 5mila persone;
Radicalizzazione religiosa: il 70% dei combattenti svedesi arruolatisi nello Stato Islamico e partiti per il Siraq proveniva dalle aree vulnerabili (fonte: Università della Difesa Svedese), nelle quali operano sia imam radicali sia reclutatori. Rinkeby (Stoccolma) è l’enclave più conosciuta presso il pubblico, ma altrettanto meritevole di nota è Rosengard (Malmö), teatro di periodiche agitazioni popolari – l’ultima è avvenuta lo scorso agosto – e culla di diversi jihadisti, tra i quali Osama Krayem, fedelissimo di Abu Bakr al-Baghdadi, nominato nei fascicoli sugli attentati di Parigi del 13 novembre 2015 e di Bruxelles del 22 marzo 2016 e, prima della conversione all’islam radicale, testimonial di un documentario sull’integrazione.
In Danimarca, similmente alla Svezia, i quartieri ad accesso vietato vengono definiti in termini di “area particolarmente vulnerabile” e sono oggetto di un attento e costante monitoraggio da parte delle autorità, le quali aggiornano l’elenco – volgarmente noto come ghettolisten (let. la lista dei ghetti) – su base annua a partire dal 2010.
L’attuale governo Frederiksen, al quale si devono la rimozione del termine “ghetto” dai documenti governativi redatti sul fenomeno e l’elaborazione di un piano d’azione per il lungo termine, ha censito la presenza di 15 aree particolarmente vulnerabili (ex ghetti) e 25 aree a rischio. Le prime si contraddistinguono per gli elevati indici di eterogeneità etnica (oltre il 50% della popolazione di origine non europea), di disoccupazione (superiore al 40%), di criminalità (incidenza tre volte maggiore rispetto alla media nazionale), di bassa scolarizzazione e basso reddito, mentre le seconde sono in procinto di raggiungerli nel breve-medio termine.
Tutte le aree particolarmente vulnerabili presentano problematiche relative a criminalità, autosegregazione e società parallele, ma soltanto alcune possono essere classificate come dei feudi dell’islam radicale. Fra le suddette rientra sicuramente Gellerup (Aarhus), una congerie di micro- e macro-criminalità, disoccupazione, degrado urbano e organizzazioni islamiste, che ha allevato 22 dei 125 combattenti danesi che hanno giurato fedeltà al Daesh e sono partiti per la Siria
Questo per non parlare dei notevoli problemi razziali che esistono ancora attualmente negli USA .......pur essendo le persone di colore in quel paese decisamente integrate da tempo....
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Lasciamo poi stare i soliti discorsi Marxisti Leninisti sulle differenze fra le classi sociali che non c'entra un bel niente il fatto che solo chi ha più soldi possa permettersi di fare figli.-.....
In parte il problema economico esiste sicuramente poiché la mancanza di asili nido e di un lavoro fisso pregiudica il futuro di avere figli
ma il problema è oggi anche di CORAGGIO nell'affrontare la vita.
I miei genitori si erano sposati con in dote "un paio di calzini" e non sto scherzando ed il sottoscritto grazie ai mobili della camera regalati dai nostri genitori mentre mia moglie studiava ancora.....
Ora, se non hai tutto a posto, lavastoviglie e macchina compresa nel garage non ti sposi......
E' pur vero che esiste oggi una maggiore quota di lavoro precario ma è anche vero che manchi anche il coraggio di affrontare la vita e di adattarsi anche professionalmente alle mutate esigenze del mercato.
Oggi, anche in un contratto a tempo indeterminato il SICURO E' MORTO e gli esempi in giro ce ne sono a iosa.
Oltre a questo, "stranamente" con "quel pezzo di carta di un diplomino" si crede di avere il diritto al lavoro sicuro quando l'industria chiede sempre competenze maggiori e più qualificate e "studiare di più e fare la gavetta" non piace a molti restando più comodamente in famiglia vivacchiando con la pensione del nonno o del papà......
In breve, i problemi sono molti ma occorre oltre agli incentivi dello stato anche
un vero e proprio "risveglio morale" impostato non sull'egoismo ma sulla famiglia.
Se uno fa una manifestazione a favore dei "diversi" ...bandiere e TV da tutte le parti ma se se ne fa una a favore della famiglia e dei suoi valori...apriti cielo che sono i soliti retrogradi "parrucconi".....!!
Per concludere alla fine uno la pensi come vuole ma la mia felicità attuale la vedo tutti i giorni con 2 figli e 3 nipoti....