Inno cristologico esaminato da altra fonte
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Osservazioni relative:Filippesi 2,1-11
1 se c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se
c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, 2
rendete
piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e
concordi. 3Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà,
consideri gli altri superiori a se stesso. 4Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche
quello degli altri. 5Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù:
6 egli, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l’essere come Dio,
7ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
8umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
9Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
10perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
11e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!»,
a gloria di Dio Padre.
Questo testo si situa in quella parte della lettera ai Filippesi, chiamata «lettera dalla
prigionia» (Fil 1,1–3,1a + 4,2–7.21-23) che sarebbe stata inviata da Paolo a Filippi per mezzo
di Epafrodito verso la fine della sua permanenza a Efeso. In esso Paolo, dopo aver esortato i
filippesi ad avere gli stessi sentimenti di Gesù (vv. 1-4), presenta loro come esempio la sua
vicenda umana mediante una composizione poetica chiamata «Inno cristologico» (vv. 5-11).
Per quanto riguarda l’inno, è comune
l’opinione secondo cui esso sarebbe una composizione preesistente, di carattere liturgico, che
Paolo avrebbe inserito in questo contesto per scopi esortativi. Esso ha come sfondo il tema
dell’abbassamento-esaltazione così come appare nei testi riguardanti il giusto (cfr. Pr 3,34;
Sap 2,23-24), il Figlio dell’uomo (cfr. Dn 7,13-14), Adamo (cfr. Gn 1,26-27) e soprattutto il
Servo di YHWH (cfr. Is 52,13-53,12). L’inno si divide in due parti: umiliazione (vv. 6-8) ed
esaltazione (vv. 9-11).
Nella premessa all’inno Paolo parla della gioia (chara) che si aspetta di ricevere dai
filippesi. Questa gioia si attua in quanto si verificano in essi questi quattro atteggiamenti
interiori: la consolazione (paraklêsis) in Cristo, il conforto derivante dalla carità (paramythion
tês agapês), la comunanza (koinônia) di spirito, (i sentimenti di) amore e compassione
(splanchna kai oiktirmoi) (v. 1).
Con vocaboli diversi Paolo descrive quello stato d’animo di profonda serenità interiore che ha come fonte l’amore e la compassione e sfocia nella comunione dei cuori. Esso ha come risultato la partecipazione a un medesimo sentire (to auto
fronein) e alla stessa carità (agapên), l’essere unanimi (synpsichoi) e concordi (to en fronountes). In questa serie di atteggiamenti interiori prevale il verbo fronein, che indica una percezione interiore che sta all’origine della comunione fraterna sulla quale si fonda la vita comunitaria.
Per raggiungere la profonda unità che si aspetta dai filippesi, Paolo suggerisce alcuni
comportamenti: non fare nulla per rivalità o vanagloria, avere quell’umiltà (tapeinofrosynê) in
forza della quale ciascuno considera gli altri superiori a se stesso; ricercare non l’interesse
proprio, ma anche quello degli altri (vv. 3-4). Tutti questi atteggiamenti interiori si
riassumono per l’Apostolo nell’avere in sé gli stessi sentimenti (fronein) di Cristo Gesù (vv. 3-5).
Quest’ultima frase introduce direttamente l’inno cristologico che, indicando quali sono
stati i sentimenti di Gesù, mostra chiaramente come devono comportarsi i cristiani.
L’inno si apre con il pronome relativo «il quale», che si riferisce al nome «Cristo Gesù», con
cui terminava la precedente esortazione: è questo il modo tipico con cui in casi simili una
nuova unità letteraria viene collegata al contesto che precede (cfr. per es. Col 1,15; 1Tm 3,16;
Eb 1,3).
La prima cosa che viene affermata di Gesù Cristo è che egli era «in forma di Dio» (en
morphêi Theou) (v. 6a).
Il termine morphê è stato interpretato come equivalente di concetti greci a sfondo filosofico, quali «sostanza» (ousia), «natura» (physis), che indicano il carattere specifico di un essere, oppure biblici, quali «gloria» (doxa) e «immagine» (eikôn). Tuttavia il
vero significato del termine si ricava solo tenendo presente che l’espressione morphê Theou viene posta volutamente in parallelismo antitetico con morphê doulou del v. 7b.
In altre parole, l’uso di morphê per indicare il rapporto di Gesù Cristo con Dio è giustificato proprio
dall’intenzione di contrapporlo alla morphê dello schiavo da lui assunta liberamente.
Ora il termine morphê esprime bene il rapporto sia con Dio che con lo schiavo solo se indica
la «condizione», cioè il modo in cui un essere esiste e si manifesta concretamente. Sullo sfondo
si può intuire il racconto della creazione, nel quale si dice che il primo uomo fu creato a
immagine di Dio (Gn 1,26-27).
Siccome la «condizione di Dio», in contrapposizione a quella dello schiavo, comporta essenzialmente dominio, autorità e dignità, si può ritenere che Gesù Cristo fosse en morphêi Theou proprio in quanto queste prerogative divine gli appartenevano
pienamente come suo privilegio originario.
L’esistenza di Cristo nella condizione di Dio viene espressa con il participio presente yparchôn, che ha il valore di un proposizione concessiva(«pur essendo»), con la quale si sottolinea come il suo essere in condizione di Dio non sia stato
rimosso, ma è continuato anche dopo che egli «si svuotò».
L’inno continua con una frase in cui si spiega in che modo Gesù ha gestito il suo essere in
condizione di Dio: «non giudicò un privilegio (arpagmon) l’essere come Dio» (v 6b). Il termine
arpagmon, «rapina», è molto discusso, in quanto non appare altrove nel NT, non si trova nei
LXX, e ricorre raramente negli scrittori ecclesiastici al di fuori dei riferimenti a Fil 2,6b.
Esso può designare l’azione del rubare oppure la cosa rubata considerata come un tesoro da
conservarsi gelosamente. Alla luce del secondo significato sembra che l’espressione sia una
frase idiomatica, che significa «usare qualcosa per il proprio vantaggio» o «considerare
qualche cosa come un privilegio di cui approfittare».
L’oggetto di cui Cristo avrebbe potuto approfittarsi consiste nell’«essere come Dio» (isa
Theôi). Questa espressione è stata comunemente tradotta «l’essere uguale a Dio» o
«l’uguaglianza con Dio», con riferimento alla natura o essenza divina di Cristo. Dal punto di
vista filologico però essa indica semplicemente l’esercizio attivo dei poteri propri di Dio,
esigendo dagli altri un atteggiamento di obbedienza e di culto.
Ciò che Gesù Cristo non volle sfruttare a proprio vantaggio sono dunque le conseguenze esterne del suo rapporto
privilegiato con Dio. Anche qui sullo sfondo si intuisce l’esperienza di Adamo, il quale si è
ribellato proprio perché ha voluto essere «come Dio», acquistando la conoscenza del bene e
del male (Gn 3,5).
In contrasto con lui Cristo non ha voluto gestire in termini di potere il suo privilegio di essere «in condizione di Dio»: per questo ha iniziato un cammino che lo ha portato a immergersi negli strati più bassi dell’umanità, non come castigo ma per libera scelta.
L’autore dell’inno prosegue affermando che Cristo non solo non volle approfittare di ciò
che gli competeva, ma addirittura vi rinunciò, in quanto «svuotò (ekenôsen) se stesso» (v. 7a).
Questa concisa e singolare espressione non ha nessun parallelo in tutta la letteratura greca,
perciò la sua interpretazione è estremamente difficile.
Anch’essa è stata perciò occasione di numerose speculazioni, il cui scopo era quello di spiegare in che modo colui che era nella
«forma di Dio» avesse potuto «svuotarsi», «spogliarsi». È sorta così la “cristologia kenotica” o
“kenotismo”, che nella sua forma estrema giunge al paradosso di affermare che il Verbo
divino, diventando uomo, ha messo da parte alcuni o tutti gli attributi divini incompatibili con
la realtà dell’incarnazione.
Dal contesto risulta invece chiaramente che l’oggetto della kenosi è il diritto nativo di
essere alla pari di Dio. L’espressione «svuotò se stesso» significa quindi che Cristo ha
rinunciato in modo totale, e al tempo stesso libero e volontario, a tutto ciò che il suo status
comportava dal punto di vista della dignità e del trattamento.
Alcuni studiosi sostengono che la frase sia la traduzione di Is 53,12b, dove si dice che il Servo di YHWH «ha spogliato la sua
anima per la morte» (LXX: «la sua anima fu consegnata [paredothê] a morte»): in questo caso
l a kenosi indicherebbe il cammino che ha portato Gesù a far propria l’esperienza del
personaggio deutero-isaiano, il quale si è impegnato a fondo per la riconciliazione e la
conversione del suo popolo in esilio, prendendo su di sé le conseguenze della violenza di cui
esso era ancora impregnato.
L’autore stesso conferma questa interpretazione mediante l’inciso morphên doulou labôn,
«assumendo la condizione di schiavo» (v. 7b). La polarità dei termini Kyrios-doulos fa
comprendere che la kenosi di Cristo consiste nel fatto che egli durante la sua vita terrena non
volle comportarsi come Dio e Signore degli uomini, ma come servo, privo di ogni dignità,
autorità e potere, completamente dedito all’umile servizio degli altri. Il termine «servo»
(doulos), pur non essendo lo stesso utilizzato nel greco per indicare il Servo di YHWH (pais
Kyriou), si rifà ancora una volta al personaggio deutero-isaiano e alla sua esperienza: il
servizio consistere quindi essenzialmente nell’accettazione della sofferenza che comporta
l’impegno per la rinascita di un popolo sia in senso religioso che politico e sociale.
L’inquadratura storica in cui si è svolta la rinunzia volontaria di Gesù viene poi delineata
mediante una frase preceduta da due proposizioni participiali, che formano un parallelismo
progressivo: «[Una volta] divenuto simile agli uomini e trovato nell’aspetto esterno (schêmati)
come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (vv.
7cd-8).
Colui che era nella condizione di Dio è ora sullo stesso piano (en homoiômati, nella
somiglianza) degli uomini (cfr. Eb 4,15b «provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il
peccato»). Con il participio aoristo genomenos, «divenuto» (in contrasto con hyparchôn del v.
6) l’autore dell’inno intende sottolineare come la totale somiglianza di Gesù con gli uomini si
situi nel tempo e nello spazio, come conseguenza di un evento che si situa all’interno della
storia umana. Non si tratta però di una semplice somiglianza: durante la sua esistenza terrena
(Eb 5,7: «nei giorni della sua carne») egli «fu trovato», cioè percepito riconosciuto da quelli
che l’hanno incontrato, nel suo modo di essere e di agire, come veramente uomo, alla pari di
tutti gli altri. Viene così sottolineata a tutti gli effetti la sua piena solidarietà con il genere
umano.
Diventando simile agli uomini ed essendo riconosciuto come tale, Gesù «umiliò se stesso»
(etapeinôsen eauton) (v. 8a). Questa espressione viene usata nel NT in contrapposizione ai
sentimenti di vanità, ambizione ed autoesaltazione (cfr. Mt 18,4; 23,12; Lc 14,11; 18,14; 2Cor
11,7) propri dell’uomo.
L’umiliazione di Gesù consiste dunque nel radicale rifiuto dell’ambizione e dell’orgoglio, e di riflesso nell’adozione di quella ferma e risoluta mitezza,aliena da qualsiasi violenza, che è stata propria del Servo di YHWH (cfr. Is 42,2-3; 53,7.9b). Gesù
ha portato a termine la sua umiliazione «diventando obbediente (hypêkoos) fino alla morte»
(v. 8b). L’aggettivo «obbediente», unito al participio «diventato» (genomenos), indica un
atteggiamento abituale e costante, che si caratterizza come fedeltà totale alla volontà di Dio.
L’espressione «fino alla morte» non ha un senso temporale (obbedire fino all’ultimo respiro),
ma un senso qualitativo: un’obbedienza che non cede neppure davanti al sacrificio personale,
compreso anche quello supremo della propria vita. Anche qui si percepisce sullo sfondo la
sintonia piena con Dio che è attribuita al Servo di YHWH in diversi passi dei carmi a lui dedicati
(cfr. soprattutto Is 50,4-8).
L’autore infine commenta: «e alla morte di croce (staurou)» (v. 8c). Questa espressione, che
rappresenta il climax dell’inno, può considerarsi come un espediente retorico che mette in
rilievo l’estremo grado di umiliazione a cui Gesù è andato incontro. Il termine staurou è usato
senza articolo, al fine di evidenziare il carattere ignominioso della morte. Nel contesto
parenetico in cui l’inno è inserito l’espressione «morte di croce» assume un significato
speciale, in quanto la pena capitale della crocifissione richiamava alla mente dei filippesi, che
vivevano in una città romana, l’umiliazione più degradante e più ignominiosa, il colmo
dell’abiezione.
Il movimento della kenosi e dell’umiliazione di Cristo si arresta bruscamente per dare
spazio al movimento contrario. Cambia il soggetto dell’azione: mentre finora chi agiva era
Gesù, a partire dal v. 9 è Dio che interviene. Il nuovo brano inizia con la descrizione degli
effetti che ha avuto l’umiliazione di Cristo: «Per questo anche Dio lo sopra-esaltò (yperypsôsen)» (v. 9a). L’espressione «per questo» sottolinea come la radicalità della svolta che interessa la persona di Gesù ha uno stretto collegamento con ciò che è capitato
precedentemente. Proprio in forza della sua morte egli ha conseguito un modo di essere
immensamente superiore a quello dei semplici mortali.
L’esaltazione che gli è conferita appare come un esempio del modo di agire di Dio, enunciato da Gesù stesso nei vangeli (cfr. Lc
14,11; 18,14b //Mt 23,12). Il verbo ypsoô, «esaltare», è utilizzato nel quarto Vangelo per
indicare la morte di Cristo in croce, in quanto però essa implica già la sua risurrezione e
ascensione (cfr. Gv 3,14; 8,28; 12,32.34).
Tuttavia l’inno non menziona questi due eventi: è chiaro che per l’autore è sufficiente mettere in rilievo il contrasto tra l’abbassamento e l’esaltazione di Cristo. L’uso di ypsoô rappresenta un’ulteriore allusione al Servo di YHWH, il
quale dopo la sua morte ha sperimentato il successo e l’esaltazione (Is 52,13 nella traduzione
dei LXX). Con il composto yper-ypsoô (un termine che appare una sola volta nel NT) l’autore
vuole far comprendere il carattere pieno e definitivo dell’esaltazione di Cristo, la quale
rappresenta l’opera per eccellenza compiuta da Dio in suo favore.
L’intervento divino viene ulteriormente precisato con questa affermazione: Dio «lo
gratificò (echarisato) con il nome che è al di sopra di ogni nome» (v. 9b). Questo è l’unico
passo nel NT in cui si parla di un atto di grazia (charis) concesso a Cristo.
Dal contesto (cfr. v. 11b) si ricava che «il nome» attribuito a Gesù è il nome stesso di Dio, YHWH, che in greco è stato
tradotto Kyrios, Signore. Il nome significa, alla luce del linguaggio biblico, non un appellativo o
un attributo specifico (in questo caso la divinità), ma piuttosto un ufficio, status, o dignità.
Per iniziativa gratuita di Dio Gesù riceve quindi lo status di Kyrios, che comporta la suprema
dignità e la sovranità assoluta su tutto quello che esiste in cielo ed in terra (cfr. Mt 28,18).
Proprio quel Gesù, che durante la sua esistenza terrena non aveva voluto avvalersi a proprio
vantaggio del suo «essere alla pari di Dio», viene ora esaltato in sommo grado, ricevendo in
dono da Dio la dignità suprema propria di Dio stesso: ciò a cui aveva liberamente e
volontariamente rinunciato come diritto lo ottiene ora come dono gratuito.
Viene poi descritta la conseguenza dell’esaltazione di Cristo: «affinché nel nome di Gesù si
pieghi ogni ginocchio degli esseri celesti, terrestri e sotterranei, e ogni lingua confessi» (v. 10).
Il «nome di Gesù» è quello che gli appartiene perché gli è stato dato da Dio (genitivo
possessivo), e indica la sua signoria universale. Perciò in esso, cioè in segno di profonda
venerazione nei suoi confronti, «si piega ogni ginocchio... e ogni lingua confessa»: questa
espressione è ricavata da Is 45,23 (citato secondo la traduzione dei LXX), dove indica
l’adorazione che un giorno tutte le creature presteranno a YHWH.
L’autore dell’inno aggiunge «degli esseri celesti, terrestri e sotterranei» per esplicitare il carattere universale di tale
adorazione: ad essa prendono parte tutti gli esseri creati capaci di adorazione, e cioè gli spiriti
nel cielo, i viventi sulla terra ed i morti nello she<ol. Il riferimento a Is 45,23 porta ad escludere
l’opinione di coloro che, ricorrendo al modello del “redentore gnostico”, vedono in questi
esseri le potenze cosmiche sconfitte da Cristo, nuovo kosmokrator, e costrette a rendergli
omaggio e a riconoscere la sua autorità. Qui infatti viene ripreso il concetto
veterotestamentario della signoria universale di YHWH, con l’unica differenza che il loro
omaggio, nella sua estensione più ampia, è ormai prestato a Cristo.
L’inno cristologico raggiunge la sua conclusione quando rivela che tutto il cosmo confessa
che «Signore [è] Cristo Gesù» (v. 11b). Nel NT questa confessione si ritrova solo un’altra volta
(Col 2,6), mentre altrove essa ricorre nella sua forma più breve «Gesù è Signore» (cfr. 1Cor
12,3; Rm 10,9a). Con questa formula carica di profondo significato teologico l’autore vuole
affermare che Gesù Cristo non è un signore qualunque, ma il KYRIOS per antonomasia. Gesù,
che durante la sua esistenza terrena ha voluto toccare il fondo dello svuotamento e
dell’umiliazione, è stato innalzato alla suprema dignità.
Dal punto di vista formale il termine Kyrios riassume in modo stupendo l’idea di esaltazione contenuta nella seconda parte
dell’inno, in contrasto con il termine doulos con cui nella prima parte è descritto l’abbassamento di Gesù. Colui che si è profondamente abbassato prendendo la condizione di schiavo, viene ora esaltato alla suprema dignità di Signore. Non si tratta però di due momenti diversi: l’esaltazione rivela il vero significato dell’umiliazione e l’umiliazione è già in se stessa
una realtà gloriosa.
L’inno termina con l’espressione «a gloria di Dio Padre» (v. 11c). Con queste parole l’autore
vuole affermare che Gesù non è il sostituto né il concorrente di Dio, in quanto la confessione
della sua signoria torna in ultima analisi a gloria di Dio Padre. A rigore di termini questa frase
si riferisce direttamente all’esaltazione di Gesù.
Tuttavia essa serve come conclusione di tutto l’inno, in quanto sottolinea come sia l’umiliazione che l’esaltazione interagiscano in vista non di un vantaggio umano ma dell’attuazione di un progetto divino il cui scopo è la salvezza
dell’umanità.
Nel corso dei secoli l’inno cristologico è stato interpretato in due modi sostanzialmente
diversi. Per combattere l’arianesimo Ambrogio, l’Abrosiaster (sec. IV) e i Padri Latini
posteriori hanno visto come protagonista dell’inno il Verbo preesistente nel sua esistenza
presso il Padre e nel processo che lo ha portato a scendere in questo mondo e a prendere la
natura umana.
Perciò in Fil 2,7 si è letta la dottrina dell’incarnazione del Verbo, in base alla
quale si è costruito un sistema dottrinale che, in linea con l’insegnamento dei Concili di Nicea
e di Calcedonia, pone l’accento sul Verbo preesistente, sull’incarnazione e sulle due nature di
Cristo. Questa lettura del brano è diventata tradizionale, in quanto domina tutta l’esegesi
cattolica fino ai tempi moderni. Invece i Padri Greci e quelli Latini prima di Ambrogio e
dell’Abrosiaster hanno visto come soggetto del brano Gesù nella sua realtà umana concreta,
cioè nella sua vita terrena.
Paolo stesso si è ispirato a questa interpretazione dell’inno in
quanto l’ha utilizzato non per fare un discorso teologico sull’incarnazione ma per ricavarne un
insegnamento per i filippesi, i quali, di riflesso, non possono averlo interpretato che nello
stesso modo. È oggi convinzione abbastanza diffusa che sia questa l’interpretazione da
preferirsi.
Secondo questa interpretazione, nell’inno la vicenda di Gesù viene letta sulla falsariga
dell’esperienza di Adamo e del Servo di YHWH.
Adamo, creato ad immagine di Dio, ha preteso di essere come Dio, e così ha perso la dignità che gli era stata conferita. Gesù invece, pur essendo «nella condizione di Dio», cioè avendo con lui un rapporto specialissimo, non ha fatto valere il
suo privilegio in termini di prestigio e di potere, ma ha assunto la condizione propria del Servo sofferente.
La sua umiliazione non deve dunque essere vista come espressione di un
processo ascetico di mortificazione, ma come conseguenza della sua fedeltà a Dio, dalla quale
scaturisce un impegno personale e costante per la liberazione non solo, come per il Servo di
YHWH, di un popolo ancora lacerato da profonde divisioni e impregnato di violenza, ma di tutta
l’umanità.
In questo testo trovo:
Trovo precedentemente però :L’oggetto di cui Cristo avrebbe potuto approfittarsi consiste nell’«essere come Dio» (isa Theôi). Questa espressione è stata comunemente tradotta «l’essere uguale a Dio» o «l’uguaglianza con Dio», con riferimento alla natura o essenza divina di Cristo.
Tra l'altro non si capisce bene questa ultima interpretazione tale dover inficiare completamente il significato comunemente adottato in special modo quando l'autore dell'articolo traduce : «essere come Dio» (isa Theôi) in maniera identica a quanto contestato:"Anche la locuzione 'essere come Dio' (in greco: isa theo) non può essere tradotta semplicemente con 'uguaglianza con Dio', 'essere uguale a Dio', come spesso accade. Ciò esigerebbe, infatti, la forma isos theo; nel testo ricorre invece l'avverbio isa, e ciò significa soltanto 'come Dio', 'simile a Dio'.
FONTE: Karl-Josef Kuschel - "Generato prima di tutti i secoli?" - Queriniana
Tra l'altro leggo :nel testo ricorre invece l'avverbio isa, e ciò significa soltanto 'come Dio', 'simile a Dio'.
Non siamo quindi in presenza di un'affermazione sull' 'essere uguale a Dio' di Cristo e ciò milita nuovamente in sfavore di un'interpretazione sotto il profilo della preesistenza".
Ma dove trovo altre considerazioni.
PS. Per favore non iniziamo la solita polemica dove sia tutto catechismo e non si conosca l'autore.Perciò in Fil 2,7 si è letta la dottrina dell’incarnazione del Verbo, in base alla
quale si è costruito un sistema dottrinale che, in linea con l’insegnamento dei Concili di Nicea
e di Calcedonia, pone l’accento sul Verbo preesistente, sull’incarnazione e sulle due nature di
Cristo.
Mi pare che tale analisi sia fatta bene anche se orientata ad un pensiero diverso di altri "storici del cristianesimo".
Mi è sembrato doveroso pertanto segnalare per par condicio anche altri articoli.